Quando colpisce la «sindrome del reduce» Su 2,6 milioni di reduci da Iraq e Afghanistan, il 20% soffre di disturbi psichici
Kerr quando tornò dall’Iraq nel 2004, con le schegge di una bomba nella gamba e il ricordo di due compagni dilaniati. Guardava i cartoni con i figli, sembrava ok, ma per settimane — girando per le strade della sua città in Kansas — scrutava i tetti alla ricerca dei cecchini di Saddam.
Un neurologo olandese ha dimostrato, con tecniche di neuro imaging, che «la sindrome del veterano» può letteralmente «modificare» il cervello. Ai tempi del Vietnam, ci La foto Un’immagine mostra il killer con il dito verso l’alto: segno simile a quello dei jihadisti vollero 10 anni prima di arrivare a formulare la diagnosi di Ptsd. I reduci dell’Indocina, ricorda uno psichiatra militare, tornavano «con lo sporco della guerra ancora sotto le unghie»: non esistevano i programmi di «riassestamento» che ci sono oggi, con periodi di decompressione tra «the war zone» e «back home», in cui i soldati sono seguiti e monitorati. Eppure, oggi come allora, «la malattia del ritorno» resta difficile da curare. In base a uno studio del 2014, il 55% dei reduci si sente «qualche volta o spesso disconnesso dalla realtà»; la metà conosce qualcuno che ha tentato il suicidio. Anche se l’89% sostiene che rifarebbe la scelta di arruolarsi e partire.
Come la pensa Esteban Santiago? Nei prossimi mesi forse sapremo di più sul suo rapporto con la divisa. È possibile che i veterani come lui, che hanno solo sfiorato la guerra, quelli che «hanno spento la luce» prima del definitivo ritiro, abbiano accumulato una dose
gennaio 2016 la compagna lo denuncia per violenza domestica: lei era in bagno, lui la insulta, butta giù la porta, la colpisce alla testa e cerca di strangolarla. La polizia annota che la donna non è ferita ma emette un ordine restrittivo, che lui violerà tornando a vivere con lei: a settembre hanno avuto un figlio. È lei a chiamare i familiari pochi mesi fa per allertarli che Esteban sta peggiorando. «Era contento d’essere un papà», dice una zia, ma un
Allucinazioni
mese dopo «ha perso la testa». Cacciato dalla Guardia nazionale per condotta insoddisfacente, litiga con tutti. Lavora per una compagnia di sicurezza: il capo lo segnala all’Fbi. Il fratello gli consiglia di andare in chiesa o dallo psicologo: «Non l’hanno aiutato». Fa impressione, ora, la foto in cui prende in braccio il figlio indossando una maglietta con la scritta «disturbed». Sul profilo Instagram un’altra frase premonitrice: «Vediamo se la tua missione sulla terra è finita. Se sei ancora vivo, non lo è». maggiore di frustrazione e disillusione? Certo è stato più facile illudersi per coloro che hanno vissuto la fase iniziale del conflitto: Daniel Finn, ex caporale dei marines, dopo quasi 15 anni ricorda ancora la donna irachena che per strada, il giorno della caduta di Bagdad, davanti a lui aprì la bocca mostrando il vuoto della lingua che le avevano strappato, facendo cenno con la mano alla statua di Saddam Hussein.
Questione di timing, e di carattere. Colby Buzzell è stato uno dei primi veterani a raccontare la sua esperienza in Iraq (su blog e poi su carta). Nella classica lettera che fanno scrivere ai soldati nella prospettiva che diventino «caduti», lui aveva scritto: «Cara mamma, caro papà, avete ragione. Anziché nell’esercito, avrei dovuto andare all’università. Love, Colby». Per gente così, sarebbe impossibile tornare dalla guerra e fare una strage all’aeroporto.