I profughi trasformano le terre incolte in orti solidali
Maramao come la vecchia canzone. Maramao come nella Bassa padana si usa ancora chiamare i neri e gli «altri» in genere, «visto quanti maramao in giro?». E Maramao, anche, come lo sberleffo divertito di chi taglia il traguardo alla faccia di quanti gli dicevano «non ce la farai mai». Perché loro, invece, non solo ce l’hanno fatta ma si stupiscono di chi si stupisce. Sono profughi, richiedenti asilo, gente in fuga. Una coop del Piemonte li ha messi insieme, ha dato loro terreni incolti da anni e ricevuti a un prezzo simbolico. Loro li hanno trasformati in orto. Siamo al primo anno, giusto il rientro delle spese. Ma la previsione è di triplicare il fatturato in tre anni. Contenti loro, contenti i proprietari, contenti gli ambientalisti per il recupero del territorio, contente le amministrazioni locali. E Maramao a chi non ci credeva.
Tecnicamente è una «start up impresa agricola sociale» ed è la testimonianza concreta che «migranti» non deve essere per forza sinonimo di Cona, centri di detenzione, ribellioni, espulsioni, tensione, conflitto.
L’esperienza è nata a pochi chilometri da Alessandria per iniziativa della cooperativa CrescereInsieme, una onlus che fa parte della rete nazionale di imprese sociali Cgm. Nel 2014 hanno partorito l’idea e si sono messi d’impegno per realizzarla. Hanno coinvolto lo Sprar, il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifiugiati grazie a cui gli enti locali possono accedere al Fondo nazionale per le politiche d’asilo. Hanno bussato alla Fondazione Social del Gruppo Guala. Hanno tirato dentro i bioagronomi dell’Aiab. Poi hanno trovato un certo numero di proprietari, nei Comuni di Canelli e Calamandrana, che hanno concesso in comodato gratuito o affittato per pochi euro i loro terreni. Infine ci hanno messo a lavorare un certo numero di richiedenti asilo e titolari di protezione internazionale ospiti dei centri progetti Sprar della provincia di Alessandria, complice a sua volta con l’altro comune di Alice Bel Colle.
Morale. Oggi il terreno dell’impresa agricola sociale Maramao si estende per 15 ettari, sui quali lavorano 12 ragazzi fra i 17 e i 30 anni provenienti da Eritrea, Guinea, Senegal, Costa d’Avorio, Togo. Del gruppo anzi fanno parte anche un paio di italiani. Producono ortaggi, cereali, uva, nocciole. Dopodiché conserve, passate di pomodoro, marmellate, succhi di frutta, pane, vino. Produzione, integrazione, benessere. E adesso anche amicizia tra la gente del posto e appunto loro, i «maramao», parola trasformatasi da marchio sociale in marchio d’impresa. Da sfottò a brand: il fatturato atteso per il primo anno è di 50 mila euro, a regime saranno 150 mila.
Stefano Granata, presidente della rete Cgm, lo considera con molta semplicità il modello di progetto sociale del futuro: «Perché è chiaro — dice — che l’accoglienza ci vuole. Ma l’accoglienza da sola è perdente. La chiave è passare dall’accoglienza all’impresa capace di sostenersi e creare non solo lavoro ma nuova ricchezza per il territorio». E non solo, aggiunge, ricchezza intesa come denaro: «Ma come rivalutazione di luoghi, scambi di esperienze tra generazioni, senso di appartenenza a una comunità. Anche quando la comunità cambia».