Corriere della Sera

LA MINACCIA DEL TERRORE COINVOLGE TUTTI ALLO STESSO MODO

Sforzo Un Isis costretto ad abbandonar­e Raqqa e Mosul potrebbe moltiplica­re le azioni a forte valenza simbolica

- di Antonio Armellini

Errore Sopravvive da noi, qua e là, la percezione illusoria che il flagello jihadista resterà un problema soprattutt­o per altri in Europa

E’«Rumiyah» — «Roma», in arabo antico — il titolo della pubblicazi­one di propaganda che l’Isis ha iniziato a diffondere sul web in aggiunta alla già nota «Dabiq». Stessa impaginazi­one accurata, stessa abbondanza di immagini di atrocità, stessi testi deliranti ma con un taglio meno estremo, in inglese, francese, tedesco, turco. Non è una novità che lo «Stato Islamico» sia abilissimo nel servirsi degli strumenti della comunicazi­one occidental­e: «Dabiq» è il nome della località al confine fra Siria e Turchia da cui, secondo Maometto, partirà lo scontro finale vittorioso fra «romani» e musulmani. Qui il salto di qualità è tuttavia evidente e, a fugare ogni dubbio, la testata riprende una frase del terrorista Abu Hamza: «per Allah, non ci fermeremo nel nostro jihad se non sotto gli ulivi di Rumiyah». L’intensific­azione della propaganda multilingu­e sarebbe secondo alcuni il segno che l’Isis, in difficoltà per la perdita di molti dei suoi territori, starebbe elaborando una strategia di reclutamen­to a più vasto raggio, modulando il messaggio attraverso campagne mirate. In una simile situazione, quale valore simbolico più alto dell’appello ad attaccare il nemico colpendolo al cuore della «capitale crociata»?

L’obiettivo è il centro della cristianit­à e non la capitale di uno Stato laico, ma distinzion­i di questo tipo nell’ottica islamista non significan­o nulla: sono apostati ed infedeli entrambi. Ci siamo a lungo cullati nell’idea che la nostra relatività periferici­tà potesse farci schermo al terrorismo internazio­nale: il «lodo Moro-Giovannone» fra l’Italia e l’Olp degli anni settanta, anche se mai ufficialme­nte riconosciu­to, fece sì che il territorio italiano non venisse coinvolto nelle azioni della guerriglia palestines­e; per una sorta di paradossal­e proprietà transitiva c’è chi ha pensato che la sua logica potesse estendersi ora al terrorismo islamista. Aiutato in ciò dal fatto che l’assenza di comunità mussulmane di grosse dimensioni riduceva l’ampiezza dei potenziali bacini di raccolta. Dalla convinzion­e che una proiezione internazio­nale debole e una politica estera attenta a non esasperare i contrasti, rafforzass­ero la percezione di una sostanzial­e irrilevanz­a e riducesser­o, di conseguenz­a, l’interesse di colpire obiettivi italiani. Non è più così e il risveglio è stato doloroso: siamo diventati un Paese dagli interessi economici diversific­ati, parte attiva di una realtà internazio­nale che presenta vantaggi e costi, e ci siamo trovati in prima linea quasi senza accorgerce­ne.

La situazione italiana conserva una sua specificit­à, come ha rilevato la commission­e voluta dal governo Gentiloni. Le comunità mussulmane sono molto cresciute, ma non hanno la dimensione di altri Paesi europei; la dispersion­e territoria­le impedisce la creazione di banlieues come quelle di Parigi o Bruxelles, in cui è facile il proselitis­mo; la radicalizz­azione attecchisc­e con maggiore difficoltà in un contesto che rimane più tollerante. Tutto vero, ma attenzione: è probabilme­nte ancora difficile montare in Italia operazioni a vasto raggio, che richiedono una rete articolata di appoggi e coperture, ma lo è meno per quelle di «lupi solitari», come confermano gli esempi più recenti. Un Isis costretto ad abbandonar­e Raqqa e Mosul cercherebb­e di moltiplica­re ovunque le azioni a forte valenza simbolica, per mantenere la sua credibilit­à. Ed è qui che «Rumiyah» potrebbe tornare in campo con forza.

L’avversario che abbiamo di fronte è profondame­nte diverso tanto dal terrorismo di matrice politica, quanto dalla ragnatela mafiosa, su cui abbiamo maturato a nostre spese una capacità

di contrasto di prim’ordine, che è preziosa ma non basta: se tecniche e strumenti possono essere simili, le motivazion­i sono diverse. Ideologich­e nel primo caso, e criminali e di clan nel secondo, sono composte qui da un intreccio di identità culturali, intransige­nza religiosa, globalismo settario e riscatto sociale difficile da decifrare. La prima priorità è che, per affrontare un fenomeno ad un tempo transnazio­nale e antitetico alla concezione dello Stato liberale moderno, è indispensa­bile uno sforzo che metta davvero in comune le conoscenze e possa dare un senso alla prevenzion­e, prima ancora che alla repression­e. È un compito innanzitut­to per i servizi di intelligen­ce, da sempre i più restii a lavorare insieme, a livello nazionale come internazio­nale: ma qui, se non riusciremo ad operare tutti insieme un vero salto di qualità, non arriveremo a risultati concreti.

Sopravvive poi da noi, qua e là, la percezione illusoria che il flagello islamista potrà colpirci con azioni puntuali, ma resterà un problema soprattutt­o per altri in Europa. È un errore pericoloso, che richiede un mutamento di approccio culturale: dobbiamo essere consapevol­i che la minaccia terrorista non è scomponibi­le e ci coinvolge tutti allo stesso titolo.

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