Tumori neuroendocrini curati con il trapianto
Uno studio italiano dimostra che, in pazienti selezionati, la sostituzione del fegato aumenta la sopravvivenza e può liberare dalla malattia
Rari, ma non troppo. I tumori neuroendocrini, o NET, sono poco conosciuti, non diffusissimi ma in continuo aumento: da poco hanno superato la soglia oltre cui non possono essere più considerati rari in senso stretto, ovvero i cinque casi ogni centomila abitanti.
Purtroppo la diagnosi per molti pazienti arriva tardi, quando il tumore si è ormai esteso, anche perché i sintomi sono spesso generici.
Le metastasi si presentano dal 40 all’80 per cento dei casi e il primo organo a essere colpito è spesso il fegato e non è raro trovare masse che sono già di due centimetri nel pancreas o nel fegato stesso. Non è una buona notizia: si tratta di malati che sopravvivono meno a lungo e non di rado non rispondono a sufficienza alle terapie possibili.
Oggi però una speranza c’è, grazie a un gruppo di ricercatori italiani dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano: il trapianto di fegato cambia infatti completamente le prospettive di vita di questi pazienti, “liberandoli” dalla malattia e aumentando la sopravvivenza cinque volte di più rispetto alle altre terapie.
Lo studio, pubblicato di recente sull’American Journal of Transplantation, ha dato risultati straordinari ed è il primo al mondo ad aver dimostrato un vantaggio reale a lungo termine per chi ha metastasi epatiche da NET.
Gli ottantotto pazienti coinvolti sono stati seguiti per oltre dieci anni perché, come spiega l’autore, Vincenzo Mazzaferro direttore dell’Unità di Chirurgia dell’Apparato Digerente e Trapianto di Fegato all’INT, «questi tumori sono indolenti e imprevedibili, e a volte accelerano improvvisamente la loro crescita o rallentano: per esaminare differenze fra pazienti sottoposti a terapie diverse occorre molto tempo, è come osservare una corsa di lumache. A cinque anni, per esempio, le differenze fra chi ha subito il trapianto o no sono ancora piccole; fra cinque e dieci anni la forbice invece si allarga tantissimo e il beneficio del trapianto rispetto alle altre terapie cresce molto di più. A dieci anni l’intervento fa “guadagnare” in media circa quaranta mesi di sopravvivenza, contro sette mesi delle terapie tradizionali».
Un abisso, la cui portata si comprende pensando alla storia di una delle pazienti di Mazzaferro che aveva metastasi in meno di metà del fegato, ha ricevuto un trapianto ed è ancora viva e senza recidive oggi, dopo ben vent’anni. In sostanza, guarita.
La prova di efficacia è netta proprio perché i pazienti sono stati seguiti così a lungo. Ma il trapianto non è per chiunque: «I criteri di selezione sono precisi e servono a individuare chi ne trarrà i maggiori vantaggi — osserva Mazzaferro —. I pazienti devono avere meno di 60 anni, anche se sono possibili eccezioni, e un NET a grado basso o intermedio di aggressività: si tratta peraltro della maggioranza dei casi, perché i tumori ad alto grado, meno differenziati, sono più rari. Il tumore deve essere di origine gastroenterica e l’area deve essere stata “bonificata”, ovvero devono essere stati tolti i linfonodi della regione interessati dal tumore. Il fegato deve essere il primo e unico organo attaccato dalle metastasi, che non devono occuparne più della metà: se la diffusione è troppo massiccia il trapianto non riuscirebbe comunque a controllare la situazione, infatti un altro criterio è che il tumore sia abbastanza stabile con le terapie a disposizione».
Esistono possibilità di cura anche per chi non può sottoporsi al trapianto, per esempio la chemio-embolizzazione o la radio-embolizzazione: in entrambi i casi l’obiettivo è bloccare l’apporto di sangue alle cellule tumorali nel fegato e spesso l’approccio è efficace, se la diffusione del tumore nel fegato è limitata. La differenza, però, è che i trattamenti riescono a far “cronicizzare” la malattia tenendola sotto controllo mentre il trapianto, come la chirurgia, libera del tutto dal cancro.
Il bisturi, peraltro, quando è possibile usarlo, è sempre la cura di prima scelta contro i NET: «Se il tumore è localizzato, ovvero c’è un nodulo e pochi linfonodi interessati dalla malattia, si elimina tutto con la chirurgia — informa Vincenzo Mazzaferro —. Se non è possibile, si possono usare analoghi della somatostatina come octreotide e lanreotide: si iniettano sottocute, in alcuni casi ogni tre o quattro settimane e controllano il tumore riducendone spesso il volume, oltre che diminuire i sintomi. Altre opzioni sono terapie a bersaglio molecolare come sunitinib, un farmaco antiangiogenico, o everolimus, che riduce la progressione dei NET. Nei casi più aggressivi si può usare la chemioterapia standard, ma per fortuna la maggioranza dei pazienti può utilizzare i trattamenti più mirati o una speciale radioterapia, la PRRT (Peptide Receptor Radionuclide Therapy)».
In questo caso la sostanza radioattiva viene legata a un peptide analogo della somatostatina che si dirige verso le cellule tumorali e viene qui “agganciato” dai recettori della somatostatina: risultato, la radiazione ionizzante viene veicolata e agisce solo dove serve.
«Naturalmente prima di scegliere per l’una o l’altra delle possibili terapie mirate è necessario
sottoporre il paziente a test per capire, per esempio, se le cellule del suo tumore esprimono o meno i recettori per la somatostatina e possono quindi essere colpiti con gli analoghi o con la PRRT — sottolinea Mazzaferro —. Per fortuna le cure possibili, sebbene sofisticate, sono oggi abbastanza numerose e tutte consentono un buon controllo della malattia in moltissimi casi».
La ricerca È stata condotta da un gruppo di ricercatori dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano