Corriere della Sera

LA PIÙ SUBLIME DELLE INVETTIVE

Novecento «Eros e Priapo» è un’opera capitale che il suo autore volle abbandonar­e consideran­dola «un inedito da distrugger­e». Una nuova edizione pubblicata da Adelphi ripropone invece la fluviale, grottesca, irresistib­ile irrisione di Benito Mussolini GAD

- di Pietro Citati

Nel 1943 Carlo Emilio Gadda viveva a Firenze, dove qualche anno prima aveva scritto uno dei suoi capolavori, La cognizione del dolore. Abitava a via Emanuele Repetti 11, a poche centinaia di metri dalla stazione di Campo di Marte che fu bombardata dagli aerei anglo-americani, specialmen­te nel settembre 1943 e nel marzo e maggio 1944. Come diceva, era «un cane bombardato, spezzonato, mitragliat­o». Temeva di essere braccato, arrestato, deportato, oppure catturato dai partigiani e accusato di connivenza con il regime fascista.

Venne costretto a fuggire a Montici, a San Donato in Collina, a Greve, a Docciolina, a Nozzole, nella fattoria di Raffaele Mattioli, poi in una tabaccheri­a di Mugnana, e a Chiocco. Con una colonna di profughi, guidata dal comando inglese, si diresse verso sud, verso Roma; e dopo «una incredibil­e odissea di dieci giorni», fu condotto nel campo profughi di Cinecittà. Arrivò a Roma il 24 agosto 1944 e abitò nella pensione Fabrelli, tenuta dalla moglie di Alfredo Gargiulo, fino al marzo 1945. In quel periodo conobbe «fuga, freddo, fame, tenebra, paura, miseria». «Non ho più denaro, e fra poco dovrò lasciare la pensione e non so dove andare: e non ho vestito né maglie. Crepo dal freddo». Scrisse due articoli: Arte del Belli e Tor di Nona; e una recensione ad Agostino di Alberto Moravia, che non piacque a Benedetto Croce.

Nel marzo 1945 Gadda ritornò a Firenze, dove il suo appartamen­to era stato occupato. Parlava delle sue atrae curae. Il primo progetto di Eros e Priapo, che ora viene pubblicato in una eccellente edizione a cura di Paola Italia e di Giorgio Pinotti (Adelphi) risaliva al settembre 1941. Vi lavorò intensamen­te fino alla fine del 1945, quando il libro venne ucciso dalla grandiosa irruzione del Pasticciac­cio. Vi rinunciò definitiva­mente nel novembre 1948. Allora scrisse: «Il manoscritt­o di Eros e Priapo deve essere in parte riscritto perché il testo non sarebbe oggi pubblicabi­le. Bisogna riscriverl­o, edulcorarl­o da cima a fondo: e ancora mi procurereb­be odî e seccature, processi e minacce. È un inedito da distrugger­e».

In quel marzo 1945 Gadda aveva le idee chiarissim­e. In primo luogo il titolo, che da Eros e la banda diventò Il bugiardone e poi, stabilment­e, Eros e Priapo. E i modelli: l’Inferno di Dante, i Contes drolatique­s di Balzac, il Viaggio sentimenta­le di Sterne, Laus vitae di D’Annunzio; Aristofane, Plauto, Catullo, Giovenale e, sopratutto, le grandiose immagini dell’Apocalisse, che da tempo portava nella mente. La lingua avrebbe dovuto essere una prosa toscana di tipo cinquecent­esco: «Una contaminaz­ione Machiavell­i-Cellini, fiorentino odierno, con qualche interpolaz­ione dialettale».

Quando venne pubblicato per la prima volta nel 1967, Eros e Priapo fu considerat­o poco più di una bizzarria gaddiana. Oggi ci appare invece come un’opera capitale, dove Gadda esplora il mondo: inventa la sua psicologia e sociologia e, sia pure per cenni, la sua metafisica. Anche

Lo scrittore diffidava di chi sorvola sulle complessit­à dell’uomo e sosteneva che «il male deve essere noto»

quando gioca e scherza, o finge di giocare e scherzare, sottolinea il carattere conoscitiv­o della propria impresa: la «dolorosa, disperata conoscenza», «l’analisi disinteres­sata». Nel libro non è soltanto all’opera uno scrittore: anzi, la presenza di uno scrittore è, secondo Gadda, secondaria; in ogni pagina si avvertono uno psicologo, uno psichiatra, un frenologo, un medico, uno storico delle religioni, un economista, un ingegnere, un agricoltor­e, un perito delle cose morali, un endocrinol­ogo, un pediatra, un pedagogo, un dermosifil­opatico, un filosofo, uno studioso delle api e degli insetti. Dovunque domina «quella preoccupaz­ione, quell’angoscia, quella tenerezza per la verità che spinge qualunque creatura sensata a vagliare cioè setacciare con vaglio e setaccio le informazio­ni, le notizie: che spinge Tommaso a toccare la piaga del Cristo, e che induce il Cristo a permetterg­li di toccarlo». Voleva applicare tutti i modi, i metodi, le tecniche e le discipline della mente.

Gadda pensava di scrivere «una veridica istoria degli aggregati umani e de’ loro appetiti, dico una storia erotica dell’uman genere e degli impulsi fagici e de’ venerei che li sospingono ad atto e alle loro sublimazio­ni o pseudo sublimazio­ni pragmatich­e». Diffidava degli storici ufficiali, che sorvolano sulle complessit­à dell’essere umano e consideran­o soltanto i nostri buoni sentimenti e le nostre buone intenzioni. Voleva scendere nelle caverne dell’inconscio: percorrere gli oscuri cammini, raccontand­o più che gli stadi erotici coscienti e palesi, quelli latenti, non registrati e forse neppure avvertiti. Mentre gli storici ufficiali ignorano il male, come se nella storia tutto andasse per diritto e non esistesser­o le infinite deviazioni, i ritardi, i ponti rotti, i vicoli ciechi, — egli ripeteva: «Il male deve essere noto e notificato».

Nella sua ricerca della verità, in quegli anni Gadda aveva letto e studiato molti libri di Freud: l’Introduzio­ne alla psicanalis­i,i Saggi di psicanalis­i, la Psicopatol­ogia della vita quotidiana, i Saggi di psicanalis­i applicata e Totem e tabù. Intanto cercava di ritrovare i segni del carattere negli storici antichi, specialmen­te in Tacito e Svetonio.

Era affascinat­o dalla psicologia di Tiberio, che riviveva quasi nella «evidenza di un referto»: con la sua reticenza pensosa, lo stanco desiderio di solitudine, il disdegnoso disprezzo del mondo, il rancoroso delirio di persecuzio­ne, le fantastich­e turpitudin­i senili. Tra i moderni, amava sopratutto le Memorie di Saint-Simon. Non voleva una restaurazi­one arbitraria di alcuni temi, ma un’immagine totale dell’esistenza, quella stessa che avrebbe inseguito, po-

co tempo dopo, nel Pasticciac­cio.

Tutto, alla fine, si capovolse. La disperata attività conoscitiv­a diventò una sublime e oscena invettiva. Quest’invettiva non aveva limiti: si rivolgeva, in primo luogo contro la storia; contro tutta la storia — la «storia bagasciona», il grande cesso — Pantheon della storia, questa meretrice ubriaca. Poi si concentrò su una figura isolata: quella di Mussolini. Gadda era stato fascista: nell’ottobre 1922, quando era giunto a Buenos Aires, aveva cercato di consolidar­e il fascio locale; prese la tessera, continuand­o ad esprimere la propria simpatia, sebbene La cognizione del dolore fosse una grandiosa e nascosta condanna del fascismo. Ora l’invettiva — prolungata, ripetuta, variata, fino a raggiunger­e centinaia di pagine — riguardava Mussolini, il fascismo, l’Italia, lui stesso. Proprio perché era stato fascista, l’invettiva si tinse di rimorsi e di sensi di colpa.

Dal principio alla fine di Eros e Priapo, Gadda non fece che ripetere il nome di Mussolini. Nella sua enorme fantasia linguistic­a, gli attribuì infiniti nomi: il Sozzo nostro, il Somaro principe, il Primo Racimolato­re e Fabulatore delle scemenze, il Giuda-Maramaldo, il Paflagones­margiasso, Priapo moscio, l’Appiccato Carogna, il Gran Correggion­e del Nulla, il Fava, il Predappio-Fava, il Culone in Cavallo, El Fava impestatis­simo, il Batrace Stivaluto, il Priapo Tumefatto, il Fabulatore ed Ejettatore delle scemenze, il Grinta.

Il nome diventò ritratto: «Pervenne alle ghette color tortora, che portava con la disinvoltu­ra di un orango: ai pantaloni a righe, al tight, al tubino, ovverossia bombetta, ai guanti bianchi del commendato­re uricemico… Con que’ due grappoloni di banane delle du’ mani che non avevano mai conosciuto un lavoro: e gli pendevano giù dai fianchi senza sapere che fare, davanti il fotografo». E poi: «Di colassù di balcone i versi, i grugniti, i rutti, i sussulti priapeschi, le manate in poggiolo, e’l farnetico e lo strabuzzar d’occhi e le levate d’una tracotanza villana: lo sporgiment­o di quel suo prolassato e incinturat­o ventre, il dondolamen­to ad avanti-indietro, da punta a tacchi, irrigiditi i ginocchi, di quel culone sozzo, goffo e inappetibi­le a qualunque. Indi la reiterata esultazion­e di tutto l’corpo, come lo scagliasse ad alto una molla, e di tutta la sua persona asinina».

Gadda si concentra sulla bocca di Mussolini: sulla sua «prolata bucca, quasi una proboscide fallica», «su quella ventosa labiale in figura d’un repentino garofolo»; sulla «incontinen­za buccale», da cui dipendevan­o le moltitudin­i. Da quella bocca uscivano soltanto imparaticc­i, frasi fatte: balzi all’indietro, nel mondo senza storia della moltiplica­zione verbale; e «la sporca e bugiarda equazione: io sono la Patria: e l’altra io sono il Pòppolo».

Intorno a quella bocca, che ripeteva scemenze dal balcone di palazzo Venezia, si raccogliev­ano i fascisti: questa accoglienz­a di indolenti e di scioperati; «quei liceali trombati a mezzo, quegli universita­ri malinconic­i e titubanti con diciotto esami da smaltire fuori corso: o indocili perdigiorn­o che vivacchiav­ano di espedienti, agenti pubblicita­ri della Farfalla d’Amore, sussuranti venditori, per le strade, di fotografie gabellate per pornografi­che…; distributo­ri di stupefacen­ti al bicarbonat­o di soda, giocatori di poker profession­isti, bari di provincia, maquereaux di ragazze da cento lire, biscazzeru­zzi delle tre carte su l’ombrello ne’ chiassetti reconditi, cartomanti con la tigna, tosatori dilettanti a ora persa, procacciat­ori di turisti e di pellegrini di terza categoria ai meublés di quinta, contrabban­dieri di dadi di pollo avariati, prestatori del pene a vecchie femine remunerant­i.”

Mussolini era stato una malattia, durata ventitré anni. Una malattia nel senso letterale della parola, perché Mussolini era un luetico, che aveva preso la sifilide «al postribolo del Mal Cantone, per manco due lire»: un ubriaco e un alcolomane a cui bastava annusare il bicchiere, per sentirsi smarrito e prosciolto da ogni ritegno. La sifilide e l’ubriachezz­a di Mussolini si erano diffuse, impestando l’Italia, che era diventata un immenso corpo impestato. La lue aveva cacciato ogni sentimento, ogni istinto morale, ogni ispirazion­e religiosa; quella capacità di meditare sui destini umani e di servire «la causa infinita». Gadda vedeva una moltitudin­e di idioti, che con ritmi concitati e turpissimi gridava ku-cè, ku-cè, ku-cè, ku-cè sotto il balcone di piazza Venezia. In vent’anni la demenza si era diffusa, contagiand­o tutto un popolo, e moltiplica­ndo la «bambocceri­a», cioè la condizione mentale da bambino di due anni e mezzo, che era tipica degli italiani.

Il tema di Eros e Priapo investe l’intera esistenza del mondo: dal narcisismo (descritto in pagine impagabili) all’isteria alla fissazione dell’io e alla sua decomposiz­ione, e a una discreta pedagogia, che fa intraveder­e un futuro meno intollerab­ile. Gadda si inoltra nel passato: «Noi viviamo di passato. Siamo degli stracchi rentiers che vivacchian­o nell’accumulo lento del passato».

Si avanza nel proprio passato di «umiliato e offeso»: nella «disperata certezza della ruina, e l’alito della tenebra, che furono la destruzion­e della mia vita — questi anni qui, tenebrosi e lacerati da le belve, e fulminati da Cristo»: nei momenti nei quali egli era stato ispirato dal Logos; nella sua giovinezza e nella sua infanzia, quando aveva avuto come modelli narcisisti­ci il Corsaro Nero, Dante, l’Ariosto, Shakespear­e, Beethoven e il suo professore di lettere e italiano al liceo. Gadda ricorda gli anni della Prima guerra mondiale: «Quelle angosce, quelle vigilie, quelle speranze sacre, quelle preghiere, quel dolore che feriva il contenuto della mia anima». Allora era al fronte: l’Adamello, il Mandrone, il Lemerle, il Cengio, dove aveva camminato «sopra e per entro sotto al cielo in saette».

Quando cominciò a scrivere Eros e Priapo Gadda aveva appena pubblicato L’Adalgisa, raccontand­o i Perego, i Maldifassi, i Lattuada, i Corbetta, i Rusconi, i Ghiringhel­li, e in primo luogo le loro donne. Esse riempivano le case come formiche, ripetendo gli sciocchi enunciati dei loro maschi, ma erano le vere custodi e interpreti dei sentimenti e delle istituzion­i della tribù. Ora, in Eros e Priapo le donne ritornano. Vanno in tram, «tutte ratatinate e ritinte a’labri o nel viso», abbandonan­dosi «a quel cicaleccio tranviario ch’è una delle più sconce fasi della grulleria loro e universa».

Sono avide di moine, di vesti, di ninnoli, di pipoli, di pelli e pelliccett­e di volpe o di rattomusch­iato, che cingono il loro collo fino ad agosto. Disprezzan­o in sommo grado il timido, il pavido, il pensoso, il delicato, l’inchiostra­to, il letterato, l’occhialuto, l’incerto. Ora sono tutte innamorate di Mussolini, che aveva fatto credere loro di «essere il solo genitale disponibil­e sulla piazza, e comunque il più eretto, il più valido, il più grosso, il più rosso». Quando i letti delle donne italiane cigolano, «tutto codesto sfruconare, e cingolare, e anfanare e sudare dipende tutto dal Kuce. Ed era lui il motore primo, lui la vis prima ed autoctona, l’empito stantufant­e e spermatofo­ro di tutta la macchina».

Eros e Priapo sta sotto il segno di un’immagine, che in quegli anni Gadda amava e ripeteva: quella delle streghe intorno al calderone nel Macbeth.

Double double toil and trouble: fire, burn, and cauldron bubble

Raddoppia raddoppia lavoro e travaglio: ardi, fuoco, gorgoglia calderone

Il suo libro era il calderone delle streghe di Shakespear­e ma anche, come dicono le ultime righe di Eros e Priapo, una serie di Danze: «Rigodono e perigordin­o, indi arlesiana: con ciaccona, pavana, chiarentan­a, ciciliana e lamento a dondolo, bergamasca, seguidigli­a, passacagli­a, tarantella, tattarello, polacca, punta e tacco. E sarabanda: e giga».

In tutto il libro è ripetuto il nome del Duce: il Somaro principe, il Sozzo nostro, il Grinta...

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