Corriere della Sera

Eros, da 5 anni con la moglie in coma «Adesso, vi prego, lasciateci morire»

La lettera di un 92enne di Milano: trattata come una valigia, non voglio che capiti ad altri

- Di Giangiacom­o Schiavi gschiavi@rcs.it

Ogni giorno quando si presenta nella sua camera e la accarezza, rimbocca le lenzuola e aspetta un impossibil­e sguardo, Eros Mischi, 92 anni, si chiede se ne valeva la pena, se questo calvario si poteva evitare, se non c’era un’altra forma di assistenza, accudiment­o, pietas per rendere meno feroce un addio. Da cinque anni la sua vita non è vita, è rabbia, disperazio­ne, una battaglia persa nel reparto moribondi della residenza sociale assistita Golgi Redaelli, a cercare di ritrovare la donna che era e continua a essere sua moglie diventata un corpo muto, assente, una statua che respira da alimentare, ripulire, alzare, allettare, issare e rivoltare.

L’ora è sempre quella, pomeriggio presto, quando l’assistenza è rarefatta e si prepara il buio. Si porta dietro gesti, sguardi, movimenti, l’odore di mensa e di corsia, la fatica di un vuoto da riempire, ma accetta tutto per tutelare quel che resta di una vita insieme, di un amore che non ha età. I tre figli lo ammirano perché si fa carico di questo per non sconvolger­e anche le loro vite, provvede ai costi della degenza che gli porta via l’intera pensione, ottanta euro al giorno, Le parole Uno stralcio della lettera inviata al «Corriere» da Eros Mischi: «Ecco il mio caso», scrive, e racconta di sua moglie «Ne parlavamo con mia mo- glie», ricorda Mischi, «mi diceva non vorrei finire così», ma quando capita non c’è preavviso, nessuno immagina di dover gestire una simile emergenza. Sua moglie, cinque anni fa era già malata. Diagnosi di Alzheimer. Poi l’ictus. Ricoverata all’ospedale San Carlo, trasferita al Golgi Redaelli per la riabilitaz­ione. Qui le cose si complicano. Scrive nella lette- ra: «Per mancanza di esami o per disattenzi­one non è stato diagnostic­ato il suo stato di diabetica. Ho notato buste di glucosio in vena. È disidratat­a, mi dicevano». Poi drastica comunicazi­one: «Ha cinque giorni di vita. Qui non può morire, verrà trasferita altrove, poi potrà portarla a casa. Ma il responsabi­le del nuovo repar- to in cui viene trasferita riscontra subito il diabete e, purtroppo, la salva…». Questo « purtroppo» gli pesa, è un altro dolore, ma vedere sua moglie «trattata come una valigia da aereoporto» fa male di più. Dal 2012 è in coma: non vede, non parla, completame­nte paralizzat­a, alimentata con un tubicino, perennemen­te sotto ossigeno, dolorante, catetere, pannolone e, da mesi, morfina ogni otto ore. L’assistenza è affidata a una cooperativ­a. «Come per le pulizie», scrive Mischi. Manda lettere, si indigna, denuncia carenze nell’assistenza anche alla ministra Lorenzin. «Vorrei almeno un po’ di umanità» . Nessuna risposta.

Ognuno può trarre le conclusion­i più opportune: se questa è ancora vita, se bisognava fermarsi prima, se bisogna sempre tentare, se non si deve pensare seriamente al testamento biologico, se l’accudiment­o delle persone in coma vegetativo in alcune strutture è umano oppure no. Scrivendo questa lettera, Eros Mischi dice di aver forzato se stesso e il suo pudore. «Ho pensato spesso al suicidio e anche all’omicidio». Ha resistito per la ragione, per la speranza, e per qualcosa di più: si chiama dignità.

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