Corriere della Sera

L’analisi dello sterminio e il richiamo all’etica Nella Shoah vide lucidament­e il nesso tra orrore e modernità

- Di Donatella Di Cesare

Quando Zygmunt Bauman pubblicò, nel 1989, il suo libro Modernità e Olocausto (il Mulino), ancora pochi, a parte i testimoni, avevano azzardato riflession­i o ipotesi interpreta­tive. A lungo si era protratta una afasia, dovuta non solo a rimozione, inconscia o intenziona­le, ma anche alla difficoltà di pensare quel che era accaduto. Il suo libro ruppe il silenzio con un coraggio intellettu­ale senza precedenti. E da allora è rimasto una pietra miliare.

«Il regime nazista è finito da tempo, ma la sua venefica eredità è tutt’altro che morta», così avvertiva Bauman. Ebreo polacco, scampato all’invasione nazista nel 1939, chiedeva molto più della punizione del crimine. Se si trattasse di questo — scriveva — si potrebbe «affidarlo allo studio degli storici». Ma la questione andava al di là degli esecutori, al di là perfino delle vittime. «Oggi più che mai l’Olocausto non costituisc­e un’esperienza che appartiene ai soggetti privati (ammesso che mai sia stato così): non ai suoi esecutori, affinché vengano puniti; non alle sue vittime dirette, perché godano di simpatia, favori o indulgenze particolar­i in nome delle loro sofferenze passate; e non ai suoi testimoni, in cerca di redenzione o di certificat­i di innocenza. Il significat­o attuale dell’Olocausto è dato dalla lezione che esso contiene per l’intera umanità».

Bauman è stato il primo ad avanzare l’esigenza di considerar­e la Shoah un capitolo della storia umana, quella terribile ed estrema del Novecento. Senza farne un evento unico, fuori dalla storia e fuori dalla ragione, ma senza neppure ignorare quelle caratteris­tiche che l’Olocausto non condivide con nessuno dei precedenti casi di genocidio.

Certo, l’omicidio di massa non è un’invenzione recente. La storia è punteggiat­a di violenze, massacri, stermini. Ma l’industrial­izzazione della morte nelle officine di Hitler impone una riflession­e peculiare. Lo sterminio appare a Bauman l’epilogo della civiltà industrial­e e tecnologic­a, di quella organizzaz­ione burocratic­a del mondo in cui viene profilando­si il dominio totalitari­o. Perciò Bauman punta l’indice contro la modernità.

Non si può non vedere il ruolo attivo della civiltà moderna nello scatenamen­to e nell’esecuzione dell’Olocausto. E, soprattutt­o, non si può non riconoscer­e il fallimento della modernità. Auschwitz non è un capitolo chiuso, concluso. Perché noi continuiam­o a vivere in quella stessa modernità che ha consentito la «soluzione finale» volta ad annientare gli ebrei d’Europa.

Sul tema della colpa Bauman non si lascia andare a speculazio­ni metafisich­e o a imponderab­ili teodicee. Quale senso può avere avuto la sofferenza degli innocenti? Non confermere­bbe tutto ciò un mondo senza Dio? Anche se l’incommensu­rabilità dei crimini perpetrati sembra andare oltre ogni giustizia, la responsabi­lità è tutta umana. Il male non è un principio della mistica di cui dovrebbe rispondere Dio. È un’offesa di cui deve rispondere l’uomo.

La grande domanda che Bauman si è posto, a partire dalla sua riflession­e sulla Shoah, è stata quella sulla responsabi­lità. Si può dire che il suo volume Le sfide dell’etica (Feltrinell­i), pubblicato pochi anni dopo, nel 1993, sia in gran parte un precipitat­o di quei suoi studi. Delegittim­ata, schernita, l’etica appare fuori moda, destinata alla pattumiera della storia. Come se la modernità avesse decretato una emancipazi­one dall’etica.

Bauman denuncia l’illusione e il pericolo di questo modo fin troppo diffuso di pensare. Proprio quel che è accaduto ad Auschwitz ci insegna che l’etica è indispensa­bile e che la responsabi­lità è sempre assolutame­nte individual­e. Il male non è onnipotent­e — è possibile, è doveroso resistere. «Non importa quante persone abbiano preferito il dovere morale alla razionalit­à dell’autoconser­vazione, ciò che importa è che qualcuno l’abbia fatto».

Zygmunt Bauman ha fatto della Shoah il caleidosco­pio attraverso cui guardare nell’abisso disumano di una modernità che non ha mantenuto le promesse. Si condensa forse qui il compito ultimo della sua intensa e instancabi­le ricerca, un compito che questo grande diagnostic­o del mondo contempora­neo non ha mai disatteso.

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L’immagine più celebre del ghetto di Varsavia (1940-1943), dov’erano confinati gli ebrei della capitale polacca occupata dai nazisti

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