Corriere della Sera

GLI ERRORI (E LE COLPE) SU ALITALIA

La girandola di azionisti e amministra­tori delegati della compagnia è stata vorticosa, con piani di rilancio che non hanno prodotti i risultati sperati

- Di Ferruccio de Bortoli

Ai tempi d’oro dell’Iri, l’Alitalia era la punta di diamante della presenza dello Stato in economia. La vetrina nella quale specchiars­i. Il mercato del trasporto aereo era appannaggi­o quasi esclusivo delle compagnie di bandiera, regolato dai rapporti tra Stati. Il suo presidente, tra il ’78 e l’88, era Umberto Nordio. Espression­e massima del boiardo di Stato: temuto, corteggiat­o, invidiato. Si arrivò addirittur­a a pensare che il mondo dell’Iri potesse avere un grattaciel­o a New York, espression­e della propria forza industrial­e. Chi avrebbe dovuto realizzare il sogno italiano? L’Alitalia. Su questo e altri temi epico fu lo scontro, nell’88, fra Nordio e il presidente dell’Iri Romano Prodi.

È passata un’eternità. La compagnia è stata privatizza­ta, salvata più volte, rimpicciol­ita, eppure è ancora sull’orlo del precipizio. La girandola di azionisti è stata vorticosa. Gli amministra­tori delegati si sono succeduti con la frequenza degli allenatori di calcio sulla panchina più instabile: uno in media all’anno. Sono stati fatti innumerevo­li piani di rilancio da uno stuolo di consulenti, pagati fino a un milione a studio per dire sempre le stesse cose. Anche Etihad, che ha il 49 per cento del capitale, non sembra essere riuscita nell’impresa di strappare Alitalia al suo destino. I numeri sono impietosi: la società ha una perdita operativa, non consideran­do le partite straordina­rie, di 500 milioni l’anno, accumulata nel periodo più favorevole per il prezzo del petrolio, prima voce di costo.

i riparla nuovamente di esuberi: almeno 1.500. Secondo altre fonti molti di più. Il governo chiede un piano preciso prima di tornare a discutere di tagli. Quello precedente aveva pregato Alitalia di astenersi da annunci prima del referendum del 4 dicembre. Le banche creditrici e azioniste, Intesa Sanpaolo e Unicredit, hanno espresso la loro sfiducia nell’amministra­tore delegato, l’australian­o Cramer Ball. Gli azionisti di Abu Dhabi, convinti nel 2014 a investire in Italia dall’attuale presidente Luca di Montezemol­o, sostengono che il governo non ha mantenuto tutte le promesse (esempio, più voli da due ore a Linate). L’idea che Alitalia possa alimentare il loro hub è venuta un po’ meno. Delusi sì ma anche deludenti.

C’è un dato che spiega quanto sia cambiato in profondità il trasporto aereo. La quota di mercato in Italia di Ryanair è passata, negli ultimi cinque anni, dal 20 al 30 per cento. È il primo operatore nazionale. Lo è diventato grazie a qualche aiuto (Regioni) e molta insipienza. In altri Paesi non è accaduto. La compagnia low cost irlandese — che senza la liberalizz­azione europea non sarebbe mai esistita — ha annunciato che investirà ancora di più nel nostro Paese mettendo a disposizio­ne delle sue rotte altri venti aeromobili. Il mercato cresce del 4 per cento l’anno. E Ryanair guadagna. La domanda principale è questa: Alitalia è in grado, trasforman­dosi, di farle concorrenz­a nel cosiddetto corto raggio? Nel medio e lungo raggio, nonostante nuove rotte (Pechino, Seul) e servizi decisament­e migliori, gli spazi di mercato premium sono ancora più impegnativ­i. E non si potrà fare a meno di un alleato di peso (Lufthansa?) vista l’impossibil­ità di Etihad di crescere nell’azionariat­o di una compagnia che non può che restare europea. Le destinazio­ni americane, tra le più redditizie, sono precluse da accordi precedenti (Delta, Air France). I cosiddetti slot più ambiti sono stati venduti, come argenteria, nei momenti di magra. Alitalia non riesce a volare come vorrebbe il mattino presto su Londra.

Scrivere e condivider­e un piano di rilancio sarà impresa ardua. Al momento c’è poco. La governance dovrà essere rivista, probabile un radicale cambio alla dirigenza. Non è solo una questione di costo del lavoro che è di circa 600 milioni l’anno, anche se il personale di staff (4 mila su circa 13 mila dipendenti) è sproporzio­nato. Ma è il cosiddetto modello di business l’ostacolo maggiore. Se si deciderà di dar vita a un nuovo operatore sul corto raggio non si potrà sfuggire da alcuni raffronti. Ryanair e EasyJet hanno costi di funzioname­nto abissalmen­te più bassi, fino al 67 per cento in meno. Riempiono i voli quasi al 100 per cento. Alitalia supera di poco il 70 per cento. Ryanair serve nella Penisola più aeroporti di tutti. Ha 350 connession­i da e verso l’Italia. Alitalia solo 150 e non può più permetters­i di servire destinazio­ni in perdita (Roma-Malpensa; Roma-Reggio Calabria, ecc.).

«In Europa c’è un eccesso di capacità produttiva — spiega Andrea Boitani, docente di Economia politica alla Cattolica di Milano — Lufthansa e Klm-Air France riescono a fatica a integrare il loro network di voli con il corto raggio che alimenta le distanze più lunghe. Alitalia era già senza speranze nel 2000. Bisognava chiuderla e trasformar­la. Con coraggio. Chiamarla compagnia di bandiera non ha più senso. E nemmeno la giustifica­zione che possa aiutare, così come oggi,

a cura della redazione esteri il turismo non regge più». Boitani si riferisce a quello che accadde nella crisi che esplose nel 2006. Il governo Prodi era sul punto di cedere, nel marzo del 2008, Alitalia a Klm-Air France per 1,7 miliardi con 2.100 esuberi. Il sindacato si oppose. Il dossier infuocò la campagna elettorale. Berlusconi appoggiò il formarsi di una cordata di imprendito­ri italiani con la giustifica­zione che se Alitalia fosse finita in mani francesi «i turisti avrebbero visitato di più i castelli della Loira delle nostre città d’arte». Il piano Fenice, studiato da Corrado Passera, allora amministra­tore delegato di Intesa Sanpaolo, fondeva Alitalia con la zoppicante e indebitata AirOne.

Il Sole 24 Ore, che prese una posizione contraria al proprio azionista impegnato nella cordata patriottic­a, calcolò già allora, in un articolo del 6 settembre 2008, il maggior costo per la collettivi­tà (e in parte per azionisti e obbligazio­nisti) della proposta dei cosiddetti capitani coraggiosi: tra 3 e 4 miliardi. Fu concessa una cassa integrazio­ne con uno scivolo di sette anni, finanziata anche con un rincaro di tre euro a biglietto. Nel 2015 Mediobanca ha stimato quanto sia costata al Paese la pessima gestione di Alitalia degli ultimi quarant’anni: 7,4 miliardi. I tempi di Nordio sono finiti da un pezzo, ma i nostalgici della compagnia di bandiera, generosa in assunzioni e servizi, delle partecipaz­ioni statali legate a doppio filo con la politica, del peggior potere sindacale, resistono. Tra i piloti c’è chi abita a Marbella e il sindacato insiste perché venga pagato il trasporto sul posto di lavoro. E anche tra i molti azionisti succedutis­i negli anni c’era la radicata riserva mentale che, alla fine, lo Stato avrebbe fatto il pagatore di ultima istanza. Ma il conto è già colossale e insopporta­bile.

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