Saber, che reclutava jihadisti in cella: «Morire per la benevolenza di Allah»
Tunisino arrestato. La moglie italiana: voleva combattere in Siria e portarmi con lui
Sei mesi in carcere, nel 2011, l’avevano trasformato in un fanatico dello jihad. Uscito di galera s’era messo a frequentare un paio di moschee e altrettanti personaggi che l’uomo teneva nascosti alla moglie, italiana convertita alla religione islamica; uno gli aveva regalato la bandiera nera con i bordi dorati e le scritte arabe inneggianti ad Allah, vessillo dell’organizzazione Ansar al Sharia, una fazione dell’Isis. «Diceva che voleva trasferirsi in Siria a combattere, voleva portare anche me — ha raccontato la moglie —. Spesso la notte guardava al computer foto e filmati dei soldati dell’Isis».
A ottobre del 2014 fu fermato dalla polizia per un controllo, e alla richiesta di documenti estrasse una pistola; non fece in tempo a sparare, ci fu una colluttazione, fuggì ma fu riacciuffato dopo poche ore. Fu accusato di reati comuni, probabilmente si preparava a commettere rapine, ma a casa gli sequestrarono computer e telefonini pieni di propaganda jihadista. Tornato in cella è diventato uno degli oltre trecento detenuti di religione musulmana monitorati ogni anno dalla polizia penitenziaria: l’hanno osservato e ascoltato mentre parlava con i compagni e i parenti, hanno chiesto notizie sul suo conto agli altri reclusi. Finché ieri gli agenti della Digos di Roma gli hanno notificato in prigione un ordine d’arresto per partecipazione ad associazione con finalità di terrorismo internazionale, attraverso azioni di proselitismo, reclutamento e istigazione alla discriminazione religiosa. La storia di Saber Hmidi, tunisino di 33 anni, diventa così un paradigma del pericolo terrorista per come viene oggi percepito e contrastato in Italia; un po’ come è avvenuto per Anis Amri, lo stragista di Berlino, ma in questo caso senza conseguenze nefaste.
C’è la radicalizzazione in carcere, che trasforma le persone e le fa diventare aspiranti soldati vogliosi (almeno a parole) di arruolarsi alla guerra santa. Come i mujaheddin che «sono i più forti del mondo — diceva Hmidi intercettato in cella — ... L’America fa sempre la guerra... jihad significa la lotta... Loro hanno lo stesso obiettivo, i mujaheddin vogliono l’applicazione della legge divina». Durante una preghiera del venerdì il tunisino, che nel penitenziario di Salerno era stato indicato come detenuto-imam, è stato sentito «interpretare in modo ortodosso i dettami coranici», e in alcune conversazioni registrate in cella se la prendeva con «i Paesi europei che hanno saputo sfruttare le ricchezze dei Paesi musulmani per lo sviluppo delle loro economie... I governi arabi sono stati manipolati da questi Paesi».
Alcuni detenuti hanno riferito di averlo sentito «esprimere soddisfazione» per gli attentati al settimanale francese Charlie Hebdo e al museo Bardo di Tunisi, nonché manifestare l’intenzione di andare in Siria. Il salto di qualità tra le opinioni e il pericolo di azioni conseguenti deriverebbe, nel caso di Hmidi, dalla risolutezza e dalla violenza dei comportamenti, tentate sommosse, dietro le sbarre, aggressioni, minacce come quelle lanciate verso gli agenti penitenziari nel luglio scorso, quando protestò per non potersi recare al passeggio con le infradito: «Bastardi, vi taglio la testa...».
Alcuni compagni di cella hanno raccontato di aver subito vessazioni e «soprusi» dal tunisino che voleva piegarli alle sue convinzioni: «Mi impone di pregare tutte le volte che prega lui e vuole inculcare a noi le sue idee religiose... Tenta di indurre gli altri a creare problemi alla sicurezza del penitenziario — ha spiegato un pachistano che ha voluto cambiare cella —. Mi proibiva di fumare, lui è un integralista convinto. Ha invitato me e Noureddine (altro detenuto, ndr), una volta usciti dal carcere, a unirci all’Isis in Siria o in Libia, poiché una volta morti avremmo generato la benevolenza di Allah».
Per i precedenti reati Saber Hmidi è stato condannato a 3 anni e otto mesi di pena che avrebbe finito di scontare fra breve. Il monitoraggio in carcere ha dimostrato, secondo il giudice dell’indagine preliminare, che ne stava commettendo di nuovi, più gravi, e per questo resterà in galera. Due connazionali con i quali era in contatto da libero, su cui non sono stati raccolti sufficienti indizi per accusarli formalmente, sono stati espulsi: altra decisione emblematica di come l’Italia tenta di difendersi dalla nuova minaccia.