TRADIMENTI SENZA FINE
L’accusa di aver gettato alle ortiche gli ideali più nobili è ricorrente nella lotta politica italiana. Un saggio di Paolo Buchignani (Marsilio) esplora le origini e gli sviluppi recenti dell’ossessione massimalista che affligge il nostro Paese RISORGIMEN
Nelle pagine iniziali di un importante saggio per metà autobiografico appena pubblicato dal Mulino, Credere, tradire, vivere. Un viaggio negli anni della Repubblica, Ernesto Galli della Loggia si sofferma in particolare su uno dei tre verbi di cui al titolo del suo libro: «tradire». Torna, Galli della Loggia, alle parole «gelidamente sarcastiche» dedicate da Francesco Guicciardini, nella Storia d’Italia (Einaudi), ai «repentini cambiamenti di campo», ai «tradimenti plateali», ai «gesti di servilismo non richiesti», quasi sempre «conditi da una losca improntitudine», che accompagnarono nel 1494 la discesa in Italia del re di Francia Carlo VIII, preceduto dovunque «dalla fama della sua potenza apparentemente invincibile». Poi, però, lo storico spiega quanti equivoci sono riconducibili a quel termine: tradimento.
E quello degli equivoci riconducibili al tradimento (o supposto tale) è il tema da cui ora prende le mosse un interessante libro di Paolo Buchignani, Ribelli d’Italia. Il sogno della rivoluzione da Mazzini alle Brigate rosse, che sta per essere pubblicato da Marsilio. Buchignani riflette sulla correlazione tra il mito della «rivoluzione palingenetica» e quello della «rivoluzione tradita». Dal momento che «il paradiso in terra non si realizza mai, la perfezione non essendo di questo mondo», automaticamente, come si è già ampiamente sperimentato a seguito della Rivoluzione francese e di quella russa, i millenaristi si concedono la licenza di denunciare come «tradite» e incompiute tutte le rivoluzioni. Proprio tutte: sia quelle che sfociano nel totalitarismo e li vedono non al potere, bensì esiliati e — se dissidenti — in carcere; sia quelle che portano a «una trasformazione in un contesto di libertà», dal momento che quella trasformazione non appare mai «abbastanza radicale», sicché la società che da essa vien fuori è sempre da considerarsi «inadeguata rispetto alle promesse dell’utopia».
Il discorso vale per tutti i Paesi. Ma l’Italia può vantare dei record per quantità di «rivoluzioni tradite». Qui da noi hanno preso piede le «ideemito» che siano stati traditi il Risorgimento, la Destra storica e poi la Sinistra, l’Italia liberale, ma anche il fascismo, la Resistenza, la Chiesa cattolica, sia quella tradizionale che quella progressista, il Sessantotto e una serie infinita di «rivoluzioni minori». Idee-mito che hanno incessantemente alimentato i radicalismi di destra, di sinistra (e talvolta anche di centro). I rivoluzionari italiani, di fedi e in stagioni diverse, «interpretano la nostra storia come un susseguirsi di rivoluzioni tradite o incompiute e attribuiscono a sé stessi il compito di completarle». In questa visione, in cui «tutti i tradimenti strettamente si legano», è ben presente, secondo Buchignani, anche «un elemento strumentale che induce a piegare l’esegesi storica alle esigenze della strategia politica».
Responsabile di tutti questi tradimenti — come hanno individuato pezzo per pezzo, ognuno a modo suo, Galli della Loggia, Giovanni Sabbatucci, Roberto Pertici, Luciano Cafagna, Giovanni Belardelli, Massimo Salvadori, Luciano Pellicani, Domenico Settembrini, Emilio Gentile, tutti autori verso i quali Buchignani dichiara il proprio debito — sarebbe stato nei secoli «un moderatismo borghese, utilitaristico, antipopolare, governato dall’interesse ed estraneo agli ideali»: di volta in volta «cavouriano e sabaudo, fascista, democristiano, infine, secondo i sessantottini, comunista» (in ragione della scelta togliattiana della rinuncia all’insurrezione armata nel periodo resistenziale). Tra gli imputati figura anche Enrico Berlinguer, colpevole di non aver colto la presunta occasione rivoluzionaria che si sarebbe presentata a cavallo tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta. Nonché di aver teorizzato il «compromesso storico» con la Dc. Cioè con il diavolo.
Da dove viene questo bizzarro apparato ideologico? In principio — almeno per quel che riguarda il Novecento — fu Alfredo Oriani, con i suoi libri La lotta politica in Italia (1892) e La rivolta ideale (1908), successivamente «adottati» dal fascismo (tant’è che verranno ripubblicati con le prefazioni di Giovanni Gentile e di Benito Mussolini). Oriani riproponeva in chiave organica le critiche di Giuseppe Mazzini al modo non rivoluzionario con cui era stata fatta l’Italia. L’influenza di Oriani sui giovani dei primi due decenni del Novecento fu decisiva: lo apprezzarono Giuseppe Prezzolini, Enrico Corradini, Gaetano Salvemini, Filippo Tommaso Marinetti, Giovanni Papini e Ardengo Soffici. Tutti nemici di Giovanni Giolitti e del Partito socialista egemonizzato, all’epoca, da quello che per loro era uno spregevole spirito riformistico-borghese. Nei mesi che precedettero l’ingresso dell’Italia nella Prima guerra mondiale, i seguaci di Oriani furono tutti interventisti. E nell’interventismo, ha scritto Nicola Matteucci, «sia in quello di destra e cioè nazionalista, sia in quello di sinistra, cattolico-popolare, democratico e socialista mussoliniano, si coagulava la prima grande rivolta populista contro le istituzioni liberali, quali si erano venute formando e consolidando dal 1871 al 1915». Ma ancor maggiore fu l’influenza di Oriani sulle generazioni successive. Oltre a Mussolini e Gentile, da Camillo Pellizzi a Giuseppe Bottai, a Berto Ricci, Vasco Pratolini, Romano Bilenchi, Delio Cantimori molti intellettuali tennero, per così dire, sul comodino i testi di Oriani (che era scomparso nel 1909). E quelli che, come Bilenchi e Cantimori, finita la guerra approdarono al comunismo, portarono con sé nella nuova casa i temi connessi al «tradimento» della rivoluzione risorgimentale cari a Oriani. Del resto anche Antonio Gramsci e prima di lui Piero Gobetti (per il quale, come notò Augusto Del Noce, Mussolini era il rivoluzionario che aveva «tradito» essendosi messo sulla scia di Giolitti) avevano avuto parole di ammirazione nei confronti di Oriani.
Ai tempi del fascismo la denuncia della rivoluzione tradita non verrà mai meno. Tenderà, anzi, ad accentuarsi proprio negli anni in cui il regime toccherà l’apice del consenso. Ma già all’inizio… Scrive il 18 aprile 1923, su «L’Impero», Curzio Suckert Malaparte: «La Rivoluzione d’ottobre (qui si sta parlando di quella fascista dell’ottobre 1922, ndr) non può e non deve ripetere gli errori del Risorgimento, finito in malo modo nel compromesso antirivoluzionario del Settanta, che preparò il ritorno al potere attraverso il liberalismo, la democrazia, il socialismo, di quegli elementi borbonici,