Valori, non illusioni. Il metodo Benevolo per l’architettura
Ricordo del progettista e urbanista scomparso
La cultura italiana ha prodotto, dopo il 1945, una serie di interpretazioni storiche dell’architettura moderna fra le più importanti in Europa, dopo quelle che avevano accompagnato il dibattito eroico sul movimento moderno tra le due guerre e sui suoi fondamenti. Oltre ai contributi critici di Giulio Argan sul Bauhaus, le storie dell’architettura moderna di Bruno Zevi (molto influenzata dal suo lungo periodo trascorso negli Stati Uniti durante gli anni di guerra), i numerosi (e ancora oggi importanti) saggi e storie dell’architettura italiana del dopoguerra di Manfredo Tafuri. Infine, nel 1960, la storia del moderno di Leonardo Benevolo e i numerosi saggi sulle ragioni della sua costituzione. È una storia costruita a confronto con la sua attività concreta di urbanista (a lui si deve anche il bel libro del 1964 dal titolo Le origini dell’urbanistica moderna, Laterza) e che, forse proprio per questo, è fondata su un continuo confronto con le condizioni concrete della società e i suoi importanti mutamenti nel ventesimo secolo.
Ecco perché, anche grazie ai suoi convincimenti ideali religiosi e insieme convintamente progressisti, Leonardo Benevolo ha fatto delle complicate vicende dell’architettura moderna il più equilibrato racconto, senza illusioni intorno agli eroismi delle avanguardie e senza ideologie di concertazione populista. Con l’equilibrio di una soluzione critica positiva nei confronti con la realtà ma capace di muovere dalle contraddizioni verso la possibilità di una migliore verità del fare, che non rinuncia all’impegno intorno alla «poesia dell’abitare».
Alcuni hanno giustamente scritto in occasione della morte di Benevolo (scomparso giovedì 5 gennaio a 93 anni) giustamente rappresentandolo come una grande protagonista della cultura urbanistica italiana. Credo tuttavia che sarebbe importante promuovere un convegno intorno alla sua figura di storico dell’architettura moderna.
Ho conosciuto Leonardo Benevolo sin dai tempi del «liceo classico ad indirizzo umanistico» di Novara e ho avuto la fortuna di lavorare con lui, molti anni dopo, su alcuni progetti in cui urbanistica e architettura avevano cercato di superare la loro divisione. La sua capacità di estrarre dalle discussioni sempre il meglio dalle proposte altrui, era certamente una testimonianza non solo delle sue capacità didattiche ma della fermezza dei suoi principi su come la concretezza del problema specifico fosse l’aspetto della «sostanza di cose sperate» con cui si misurava sempre la sua personalità.
Tale concretezza comprende anche la politica con cui, egli scrive, l’architettura ha un’inevitabile relazione dialettica senza che essa si trasformi in ideologia a guida del progetto. «C’è poi un solo modo — egli scriveva nella sua Introduzione all’architettura, Laterza — per ricavare da essa come dalla storia un insegnamento non invasivo: domandarsi cosa è cambiato nella nozione stessa di architettura e nei suoi limiti rispetto alle altre operazioni umane».