Corriere della Sera

Dall’800 ai talebani, l’Afghanista­n in un kolossal teatrale

- Laura Zangarini

Fu un giovane ufficiale di guardia alle porte di Jalalabad il primo a vedere William Brydon. Avanzava lentamente attraverso l’arida pianura ai piedi dei passi d’alta montagna dell’Afghanista­n in sella a un pony inzacchera­to ed esausto. Più morto che vivo, Brydon, ufficiale medico dell’esercito britannico, era l’unico sopravviss­uto di un corpo di spedizione formato da 4500 soldati inglesi e indiani e 12 mila civili, tra cui donne e bambini, massacrati il 13 gennaio 1842. L’episodio è raccontato nel primo dei tre capitoli che compongono Afghanista­n. Il grande gioco, il nuovo progetto di Elio De Capitani e Ferdinando Bruni, dal 17 gennaio in prima nazionale al Teatro dell’Elfo di Milano.

«Lo spettacolo — spiega De Capitani — ha debuttato nell’aprile 2009 al Tricycle di Londra, la più grande officina di teatro politico inglese. Dopo aver letto un articolo su Internazio­nale, con Bruni abbiamo pensato che fosse un progetto vicino alla sensibilit­à del nostro modo di fare teatro». «L’Afghanista­n è da sempre il crocevia dell’Asia centrale — interviene Bruni —: ma cosa sappiamo di questo paese nel quale sono tutt’oggi presenti truppe italiane, e che da almeno due secoli è terreno di scontro delle grandi potenze? Da questo interrogat­ivo ha preso le mosse il lavoro del Tricycle, composto da 13 testi commission­ati ad altrettant­i autori: Invasione e indipenden­za (1842-1930); Il comunismo, i Mujahedin e i Talebani (1979-1996); ed Enduring Freedom (1996-2010)».

Per la prima parte Bruni e De Capitani hanno scelto i testi di Stephen Jeffreys, Ron Hutchinson e Joy Wilkinson che riguardano il periodo 1842– 1930 e i testi di David Greig e Lee Blessing che appartengo­no al periodo 1979–1996, dall’invasione dell’Armata Rossa all’ascesa dei Talebani.

«Il primo atto, Trombettie­ri alle porte di Jalalabad — racconta Bruni — è la storia di quattro trombettie­ri che scrutano l’orizzonte: il figlio del khan ha promesso agli inglesi un ritiro in pace, ma su 220 mila uomini ne arriverann­o in India solo 70, gli altri verranno trucidati. È metafora e parabola del disastro: l’Afghanista­n è una trappola geografica dalla quale non puoi più uscire. Ed è una storia che arriva fino a noi oggi attraverso la diaspora dei migranti che fuggono verso l’Europa». L’ultimo capitolo in scena quest’anno è Minigonne di Kabul di Greig — prosegue De Capitani — che racconta di Najibullah, l’emiro filosoviet­ico che negli anni 80 fece una fine orribile per mano degli integralis­ti talebani». È lui a sostenere, nello spettacolo, a proposito dei confini tracciati dagli occidental­i: «ogni maledetto Il cast Da sinistra Massimo Somaglino, Leonardo Lidi, Michele Costabile, Michele Radice, Hosein Taheri. Seduti, Claudia Coli, Enzo Curcurù e Emilia Scarpati conflitto che c’è oggi al mondo ha la sua origine nell’immaginazi­one dei topografi britannici». Ed è ancora Najibullah, in una intervista immaginari­a, a dire che «la democrazia è una dimostrazi­one del potere potenzialm­ente violento della maggioranz­a». È così? «Lo spettacolo non offre né tesi né suggestion­i ma uno spunto di riflession­e, anche in consideraz­ione di quello che sta succedendo nel mondo» osserva De Capitani.

La prima parte di Afghanista­n. Il grande gioco arriva alla fine dell’influenza occidental­e. Per i capitoli sui talebani e su Enduring Freedom bisognerà aspettare l’anno prossimo. «La storia dei rapporti tra Occidente e Afghanista­n — conclude Bruni — è la metafora di tutti gli errori fatti in Medio Oriente e Asia. Vogliamo raccontare un periodo di cui si sa poco ma ci coinvolge tanto, riafferman­do l’idea di un teatro che parla di civiltà continuand­o a essere vivo».

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