Corriere della Sera

«Yes we can» L’addio di Barack

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L’America di Barack Obama è uscita di scena alle 21.54 del 10 gennaio, nel Centro Congressi di Chicago, con un discorso che si è concluso con le lacrime durante l’elogio di Michelle, delle figlie, del vice Joe Biden. «Yes we can», sono state le ultime parole del presidente, rivolte ai giovani. Le stesse con cui aveva cominciato, parlando proprio a Chicago l’avventura di primo presidente afro-americano. Obama ha ricordato i posti di lavoro creati, la riforma sanitaria, l’uccisione di Bin Laden, l’apertura a Cuba, l’accordo nucleare con l’Iran. «Se vi avessi detto otto anni fa che avremmo fatto tutto ciò, mi avreste detto: abbassa un po’ le pretese. Ma lo abbiamo fatto. Anzi lo avete fatto». Ha sottolinea­to che resta ancora molto da fare. Ai fischi per Trump ha risposto alzando un braccio e dicendo «no»: «Una delle grandi forze della nazione è la capacità di trasferire pacificame­nte il potere da un presidente all’altro».

Accadde nell’estate del 2004, alla convention democratic­a di Boston. L’eroe improbabil­e, il principe meticcio venuto dal nulla, il padre dal Kenya, la madre dal Kansas, nato alle Hawaii, cresciuto in Indonesia ed educato a Harvard, incantò il popolo progressis­ta con un discorso ormai entrato nella mitologia politica americana: «Non siamo mai stati solo un insieme di individui o un insieme di Stati rossi e di Stati blu. Noi siamo e saremo sempre gli Stati Uniti d’America». Tre anni dopo, eletto nel frattempo senatore dell’Illinois, Barack Obama dava inizio a una delle più straordina­rie campagne elettorali per la Casa Bianca a memoria d’uomo. Dove a fare la differenza fu proprio il suo eloquio trascinant­e, la sua capacità di catturare l’immaginazi­one di una nuova generazion­e di americani, sedotta dalle anafore, dalle allitteraz­ioni e dalle serie ternarie del giovane tribuno.

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