Teatri di vere tragedie
Caro Aldo, scrivo in riferimento alla lettera inviatale di Gabriele Salini in riferimento ai noti fatti del Pronto Soccorso dell’Ospedale di Nola (Corriere, 11 gennaio). Premetto che sono un medico, ortopedico-traumatologo (ormai anziano) e per 15 anni ho partecipato ai turni di un Pronto Soccorso traumatologico in due importanti città. Mi trovo d’accordo con il lettore, che alla sua domanda: «Cosa avrebbero dovuto fare i medici?» ha dato la riposta giusta denunciando «i tagli alla Sanità e ai servizi».Circa la sua risposta — oltre alle giustissime osservazioni sull’igiene dei bagni e sull’attesa, cui ovviamente mi associo — mi permetto di fare osservare, che l’«atmosfera» di un reparto di Pronto Soccorso, proprio per il suo carattere di imprevedibilità del numero dei possibili richiedenti aiuto, sofferenti di patologie acute, improvvise e inattese; l’imprevedibilità di tali patologie e della relativa loro complessità; l’imprevedibilità della quantità di risorse (umane e strumentali) necessarie a risolvere tali patologie non potrà mai essere paragonata, anche nella migliore delle ipotesi, all’«atmosfera» di una corsia di degenti, i quali, per lo più, sono entrati già con la precisa diagnosi, con le indicazioni terapeutiche chirurgiche o non, con la quantità di risorse necessarie già stabilite e pronte. Ciò non toglie la necessità di efficienza, di organizzazione, e di umanità, di sollievo, di un sorriso che devono essere presenti anche e, direi specialmente, in un Pronto Soccorso, spesso teatro di vere tragedie umane. Un servizio di Pronto Soccorso efficiente ed efficace è tra i più necessari per la comunità. Ciclicamente torna alla ribalta il problema delle attese (o della mancanza di risorse), alcune volte scandalose, che si verificano in reparti di Pronto Soccorso di varie città. Per questo, secondo me, essi meriterebbero tutta l’attenzione possibile da parte di coloro che, con la necessaria competenza ed esperienza, sono incaricati di provvedere alla tutela della nostra salute. Ma qui il discorso si farebbe lungo .... Prof. Alberto Feci Le lettere firmate con nome, cognome e città e le foto vanno inviate a «Lo dico al Corriere» Corriere della Sera via Solferino, 28 20121 Milano Fax: 02-62827579
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Aldo Cazzullo - «Lo dico al Corriere» «Lo dico al Corriere» @corriere.it
Caro Aldo,
La stazione centrale di Milano è un porto di mare: non ci sono solo i clandestini, perché qualche milanese concorre a peggiorare la situazione. Ho visto arrivare gli sfollati del Polesine e gli immigrati dal Sud e non sempre Milano ha saputo trasmettere senso civico ai nuovi arrivati, ma di sicuro non lo sta facendo ora. E poi ricordiamoci che siamo stati anche noi migranti in America.
Caro Senofonte,
SMilano
ull’immigrazione sono arrivate decine di mail, quasi tutte molto dure. Scelgo questa perché ha il merito di porre interrogativi.
L’Italia allenta i freni inibitori degli stranieri, siano migranti o turisti. Noi all’estero tendiamo a comportarci meglio. Chi viene da fuori, vedendo che ognuno fa un po’ quel che gli pare, si adegua volentieri. Ma la questione non è solo di decoro o di ordine pubblico. Riguarda il lavoro e la coesione sociale.
È vero, siamo stati anche noi migranti. Ma in un contesto non paragonabile a quello di oggi. Era un’immigrazione controllata, soggetta a regole rigide: quarantene, respingimenti, espulsioni. E l’America era un continente disabitato, avido di manodopera. L’Italia di oggi è uno dei Paesi più densamente popolati al mondo, e purtroppo di lavoro ne offre poco. Il ragionamento per cui gli immigrati sostituiranno i figli che gli italiani non fanno più è di un cinismo inaccettabile; piuttosto aiutiamo le giovani coppie a diventare genitori (più le donne lavorano, più fanno figli).
Nessun Paese può reggere un flusso come quello cui è sottoposto l’Italia di oggi. Persone di cui non sappiamo nulla, e di cui spesso continuiamo a ignorare molto, compresi il nome e la reale provenienza. Non c’è dubbio che la grande maggioranza arrivi nella speranza di migliorare le proprie condizioni. Ma arriva pur sempre in zone dove l’impresa economica più florida è la malavita organizzata, non a caso attivissima nella gestione dell’affare, spesso in combutta con i trafficanti. I sentimenti di umanità non sono in contrasto, anzi vanno di pari passo al ripristino delle regole, che impongono l’accoglienza dei profughi e il rimpatrio degli irregolari. L’alternativa è il contagio del razzismo da cui nessun popolo, anche un popolo capace di grande solidarietà come il nostro, è immune.