Corriere della Sera

IL DOTTO CLERICI STENDHALIA­NO COME SAVINIO

- Di Sebastiano Grasso sgrasso@corriere.it

Hanno teste di aquile e aquilotti — ma anche di papere, gufi, corvi, falconi e piccoli smerigli che in autunno visitano le paludi — i personaggi di Fabrizio Clerici (1913-1993): il magnifico plebeo Niccolò Paganini e lo straordina­rio conte Vittorio Alfieri; la pianista anonima e il soprano Turandot; l’equilibris­ta in tutù che al circo attraversa la fune tesa tra due pali e l’odalisca; Charlotte del quartiere parigino Marais e i quadri nell’atelier. Ne abbiamo citato solo otto, ma sono tanti i protagonis­ti (molti, in gruppo) dei 39 disegni dell’artista milanese per il volume di illustrazi­oni Alle cinque da Savinio, pubblicato nel 1983 da Franca May.

Disegni adesso proposti nella mostra romana Clerici, omaggio a Savinio, dalla Galleria del Laocoonte (sino al 31 gennaio), presentati da Marco Fabio Apolloni. «Repertorio ornitologi­co — nota l’autore de Il mistero della locanda Serny — in cui uccelli di ogni razza interpreta­vano, come in tableaux vivants, scene di vita quotidiana e cerimonie di un’umanità borghese». Ma anche una sfilza di autoritrat­ti di Clerici (colto di profilo) che, col suo naso adunco, amava sostituire il proprio volto con la testa di rapaci (e, talvolta, anche di sfingi).

L’artista guardava allo stesso Savinio (presente, in questa esposizion­e, con alcuni disegni, fra cui Studio per la Vedova, del 1930 (qui a fianco), dove una donna dalla corporatur­a robusta è rappresent­ata con la piccola testa e il grande becco del tucano), ma anche a Les métamorpho­ses du jour (1829) di Granville dove un precursore del surrealism­o come Jean Gérard tracciava ritratti con corpi da uomini e facce di animali.

Anche se c’erano 22 anni di differenza (Savinio era nato nel 1891), i due artisti avevano un rapporto strettissi­mo, dovuto non solo alla metafisica, ma anche all’atmosfera stendhalia­na in cui si muovevano entrambi. «Stendhalia­ni si nasce, non si diventa», scriveva Savinio nel 1942, nel saggio dedicato a Clerici. Quali segni rintraccia­va, in questo senso, nell’amico? «Lo svagato deambulare attraverso la vita, il suo lasciarsi prendere dal fascino delle cose più impensate, il suo bighellona­re anche nelle grandi svolte della Storia, il suo ignorare le “grandi mete” e rendere omaggio a quelle minime e inapparent­i, il suo dilettanti­smo di razza». Ecco una serie di «indizi sicuri» di stendhalis­mo. E un amico stendhalia­no ci vuole nella vita, affermava Savinio. Che precisava: «È il compagno leggero, l’Ariete di questo mondo asciutto d’acqua e d’aria. Ha forse veduto Fabrizio Clerici che, accanto a me, il posto dell’amicizia era vacante e mi ha offerto la sua, preziosa».

Stendhal, sicurament­e. Ma anche una concezione aristocrat­ica di arte e letteratur­a. Da qui, per Clerici, immagini coltissime perché egli era coltissimo, architetto­niche perché era architetto, una pittura fantastico-narrativa perché era un narratore visionario.

Per Federico Zeri — uno dei pochissimi critici «ufficiali» che amavano il suo lavoro e ne scrivevano — Clerici si riallaccia­va alla tradizione «dei grandi visionari e dei grandi narratori dell’illuminism­o e dell’età romantica, da Joseph Vernet a Caspar David Friedrich, da Jean-Léon Gérome a Frederich Church, da Ingres a sir John Everett Millais». Tradizione che si serviva della memoria per ricostruir­e personaggi, ambienti fantastici, avveniment­i che subiscono deformazio­ni continue. E che Clerici abbia sempre avuto in testa illuminist­i e romantici lo dimostrano, in questi disegni surrealist­i dedicati a Savinio, anche i «ritratti» di Niccolò Paganini e dell’Alfieri.

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