IL DOTTO CLERICI STENDHALIANO COME SAVINIO
Hanno teste di aquile e aquilotti — ma anche di papere, gufi, corvi, falconi e piccoli smerigli che in autunno visitano le paludi — i personaggi di Fabrizio Clerici (1913-1993): il magnifico plebeo Niccolò Paganini e lo straordinario conte Vittorio Alfieri; la pianista anonima e il soprano Turandot; l’equilibrista in tutù che al circo attraversa la fune tesa tra due pali e l’odalisca; Charlotte del quartiere parigino Marais e i quadri nell’atelier. Ne abbiamo citato solo otto, ma sono tanti i protagonisti (molti, in gruppo) dei 39 disegni dell’artista milanese per il volume di illustrazioni Alle cinque da Savinio, pubblicato nel 1983 da Franca May.
Disegni adesso proposti nella mostra romana Clerici, omaggio a Savinio, dalla Galleria del Laocoonte (sino al 31 gennaio), presentati da Marco Fabio Apolloni. «Repertorio ornitologico — nota l’autore de Il mistero della locanda Serny — in cui uccelli di ogni razza interpretavano, come in tableaux vivants, scene di vita quotidiana e cerimonie di un’umanità borghese». Ma anche una sfilza di autoritratti di Clerici (colto di profilo) che, col suo naso adunco, amava sostituire il proprio volto con la testa di rapaci (e, talvolta, anche di sfingi).
L’artista guardava allo stesso Savinio (presente, in questa esposizione, con alcuni disegni, fra cui Studio per la Vedova, del 1930 (qui a fianco), dove una donna dalla corporatura robusta è rappresentata con la piccola testa e il grande becco del tucano), ma anche a Les métamorphoses du jour (1829) di Granville dove un precursore del surrealismo come Jean Gérard tracciava ritratti con corpi da uomini e facce di animali.
Anche se c’erano 22 anni di differenza (Savinio era nato nel 1891), i due artisti avevano un rapporto strettissimo, dovuto non solo alla metafisica, ma anche all’atmosfera stendhaliana in cui si muovevano entrambi. «Stendhaliani si nasce, non si diventa», scriveva Savinio nel 1942, nel saggio dedicato a Clerici. Quali segni rintracciava, in questo senso, nell’amico? «Lo svagato deambulare attraverso la vita, il suo lasciarsi prendere dal fascino delle cose più impensate, il suo bighellonare anche nelle grandi svolte della Storia, il suo ignorare le “grandi mete” e rendere omaggio a quelle minime e inapparenti, il suo dilettantismo di razza». Ecco una serie di «indizi sicuri» di stendhalismo. E un amico stendhaliano ci vuole nella vita, affermava Savinio. Che precisava: «È il compagno leggero, l’Ariete di questo mondo asciutto d’acqua e d’aria. Ha forse veduto Fabrizio Clerici che, accanto a me, il posto dell’amicizia era vacante e mi ha offerto la sua, preziosa».
Stendhal, sicuramente. Ma anche una concezione aristocratica di arte e letteratura. Da qui, per Clerici, immagini coltissime perché egli era coltissimo, architettoniche perché era architetto, una pittura fantastico-narrativa perché era un narratore visionario.
Per Federico Zeri — uno dei pochissimi critici «ufficiali» che amavano il suo lavoro e ne scrivevano — Clerici si riallacciava alla tradizione «dei grandi visionari e dei grandi narratori dell’illuminismo e dell’età romantica, da Joseph Vernet a Caspar David Friedrich, da Jean-Léon Gérome a Frederich Church, da Ingres a sir John Everett Millais». Tradizione che si serviva della memoria per ricostruire personaggi, ambienti fantastici, avvenimenti che subiscono deformazioni continue. E che Clerici abbia sempre avuto in testa illuministi e romantici lo dimostrano, in questi disegni surrealisti dedicati a Savinio, anche i «ritratti» di Niccolò Paganini e dell’Alfieri.