I mali della Rai e il dilemma di una riforma forse impossibile
Ancora una volta il partito Rai ha vinto, o quasi: il «corpaccione» ha respinto i corpi estranei, come era già successo in passato. Carlo Verdelli si è dimesso dopo lo stop del cda al piano di riforma del sistema news. Nella mitologia di Viale Mazzini il suo scalpo è appeso nell’ufficio di Monica Maggioni, la presidente che ha osteggiato con tutte le forze la riforma proposta da un «esterno». Ma questa, in verità, è solo una lettura superficiale, tanto per fare un po’ di colore.
I
mali della Rai sono più radicati e sostanziali, forse insolubili: non riguardano le singole persone (non solo), ma equivoci storici e scelte di fondo che continuano a essere procrastinati.
Due i problemi principali: la sfida del nuovo scenario globale impone alla Rai di diventare una media company (l’avvento dei canali tematici, la digitalizzazione, il web, l’on demand, i device con cui si può accedere ai contenuti…), e di ridefinire il concetto di servizio pubblico (c’è ancora chi pensa che un riuscito servizio di divulgazione in prima serata sia la strada da seguire; c’è chi cita ancora il maestro Manzi…).
I due problemi sono strettamente legati fra loro perché riguardano l’assetto istituzionale dell’azienda, le risorse, la governance, la programmazione. Qualcosa è stato fatto (la figura più moderna ed efficiente dell’amministratore delegato sostituisce quella di direttore generale), ma non basta. Finché la Rai non troverà un assetto istituzionale che la renda indipendente dai partiti (usiamo una frase fatta, nemmeno la Bbc è «indipendente», ma le responsabilità dirigenziali sono più chiare), ogni tentativo di riforma è minato alle basi.
In questo scenario in continua evoluzione, la Rai di Campo Dall’Orto si è mossa su due versanti (un po’ lentamente): da un lato, ha agito lungo i tre pilastri classici di
«informazione, educazione e intrattenimento» (con un tentativo di modernizzazione dei contenuti); dall’altro, ha cercato di rinnovare il proprio brand (punto di riferimento e di credibilità) rivolgendosi sia al pubblico generalista, mainstream e tradizionale, sia al nuovo «target digitale», più in confidenza con le piattaforme online.
Questo compito è cruciale nel momento in cui il tema del passaggio al digitale terrestre si è inserito nell’annoso dibattito culturale e politico sul declino della tv generalista. Da questo punto di vista, la messa a punto di Rai Play è stata fondamentale, la vera innovazione.
Non è il caso qui di discutere sulla «bontà» dei dirigenti «esterni»: alcuni si sono dimostrati molto validi, altri inadeguati. Il punto è che la Rai deve uscire dall’angolo in
cui storicamente la lottizzazione l’ha relegata!
Non si può lavorare avendo sempre contro il Cda, i cui membri, spesso impreparati, sono stati scelti dal governo (che si è sfilato abbastanza in fretta) e dai partiti in nome di quel fantasma chiamato «pluralismo». Nessuna industria moderna è in grado di sopportare un simile peso.
Non si può lavorare dovendo rendere conto, a ogni piè sospinto, ai «guardiani» della Commissione di Vigilanza, agli Anzaldi o ai Gasparri.
Non si può lavorare credendo ancora alla favola delle «grandi professionalità interne». La Rai ha fior di professionisti, nessuno lo discute, ma sono anni che la linea di comando è scelta non per competenza ma per appartenenza e il nuovo scenario mediatico non lo tollera più.
Non si può lavorare senza una forte policy aziendale, dove ognuno fa e dice quel che gli pare. Un codice interno del 1996 recitava: «Tutti gli operatori della Rai dovranno astenersi dall’utilizzare i canali di diffusione aziendale per replicare a eventuali critiche personali, anche se riferite all’attività da loro svolta nell’ambito aziendale».
Non si può lavorare con un assetto ipertrofico che compromette lo sviluppo dell’intero sistema tv: 14 canali, dieci testate giornalistiche, 27 edizioni giornaliere, le obsolete sedi regionali (il punto più alto di lottizzazione), una massa di dipendenti che avevano ragione di esistere solo in regime di monopolio (o di duopolio).
Chiudere Viale Mazzini e rifondare la Rai? È l’unica strada praticabile?