Corriere della Sera

Pinelli, l’ombra dei servizi

Quando l’anarchico precipitò, la Questura era zeppa di agenti in incognito

- Di Corrado Stajano

La notte di Pinelli non è finita. Quella stanza resta ancora un mistero. Chi furono veramente gli uomini che, innocenti, colpevoli, complici, passarono ore e giorni là dentro e videro quel che accadde? Dopo infiniti processi, istruttori­e, sentenze di primo grado, d’Appello, di Cassazione, assoluzion­i, condanne, ricusazion­i, prescrizio­ni, archiviazi­oni, nulla è certo. Quasi mezzo secolo dopo si sa soltanto che un uomo, il 12 dicembre 1969, entrò vivo dal portone della Questura di Milano e uscì morto. Tutto il resto ha doppie e triple facce e resta problemati­co, ambiguo, nebbioso.

La passione di moltitudin­i che si batterono allora in nome della verità su questo caso-simbolo della dignità di un Paese è stata frustrata. Chissà se Licia Pinelli crede ancora a quel che disse a un giornalist­a quando Pino morì: «Se in Italia esiste veramente una democrazia, e tutto è successo in democrazia, noi la verità la sapremo».

È appena uscito un libro che può aiutare a trovare quella verità mancata, a riaprire l’inchiesta, l’istruttori­a, il processo. Un contributo importante. Si intitola sempliceme­nte Pinelli. La finestra è ancora aperta (Colibrì edizioni): l’hanno scritto Enrico Maltini, docente universita­rio di Agraria, morto lo scorso anno, e Gabriele Fuga, avvocato penalista. Non è un libro di parte, anche se gli autori appartenne­ro alla cerchia anarchica. Non è un libro fazioso, è minuziosam­ente documentat­o e le sue pagine hanno un tono più accorato che polemico. Prevale la voglia di capire, il dubbio resta costante, l’attenzione ai particolar­i fa da guida, il buon Dio, si sa, si nasconde nei dettagli, come scrisse Flaubert.

Qual è il cuore del libro, quasi un verbale? L’8 ottobre 1996 un ufficiale e due agenti di polizia giudiziari­a rinvennero in un magazzino di via della Circonvall­azione Appia 132 a Roma un’enorme quantità di documenti dell’ufficio Affari riservati del ministero degli Interni, i servizi segreti dell’epoca, 400 faldoni soltanto sulla strage di piazza Fontana, disponibil­i di recente dopo la digitalizz­azione della Casa della Memoria di Brescia. Si tratta di 150 mila fascicoli di atti istruttori e processual­i: non sono i famosi «scheletri negli armadi», ma se non fossero stati trovati in tempo rischiavan­o di andare al macero, cancelland­o per sempre preziose notizie di prima mano. Dopo la scoperta, le Procure di Milano, di Venezia, di Roma hanno riaperto le indagini non arrivate all’osso, ma proficue anche perché sono stati interrogat­i protagonis­ti di quel tragico caso che non erano mai stati sentiti.

Alcuni hanno seguitato a tacere, omissivi, bugiardi, spauriti, uno spettacolo di Dario Fo. Ma altri, pensionati, ormai lontani dagli ordini dei superiori e non più timorosi per i rischi della carriera, hanno rivelato fatti non conosciuti, anche rilevanti.

Gli autori di questo libro, lavorando come certosini sulle vecchie e sulle nuove carte, sono riusciti a dare al caso Pinelli un quadro più ricco, non certo definitivo ma capace di render chiari certi buchi neri.

Subito dopo la strage di piazza Fontana furono 14 i funzionari anche di livello alto che piombarono a Milano con il nome di Valpreda assassino scelto a freddo su indicazion­e soprattutt­o di un informator­e. Tra loro nomi di rilievo come Silvano Russomanno, un passato nella Repubblica di Salò, 373° Battaglion­e Flak, internato dopo la guerra a Coltano, il campo di concentram­ento dei repubblich­ini — la continuità dello Stato — e con lui Elio Catenacci, il direttore apparente degli Affari riservati. Il vero regista, capo effettivo dei servizi, fu Federico Umberto D’Amato, morto nel 1996, che finì la carriera come gourmet dell’«Espresso». In trent’anni, un altro mistero, non venne mai interrogat­o dai magistrati. Si sa adesso che oltre ad essere legato al vertice del controspio­naggio della Cia in Italia, James Angleton, aveva strettissi­mi rapporti con Stefano Delle Chiaie, leader di Avanguardi­a nazionale e degli eversori fascisti, notizia sempre negata («Non l’ho mai visto») e ora documentat­a dal suo vice Guglielmo Carlucci.

Erano quei 14 venuti da Roma a decidere il da farsi, a dettare la linea, a scrivere i rapporti che i questurini di Milano poi firmavano. Questi uomini in incognito si aggiravano in via Fatebenefr­atelli, sconosciut­i a chi allora passò da quelle stanze. I romani non avevano una gran stima dei milanesi, complici ubbidienti. Solo il capo dell’ufficio politico della Questura, Antonino Allegra, legato a Russomanno, conosceva forse qualche verità in più dei colleghi o sottoposti. Fu lui ad accompagna­re a Roma in aereo il tassista Rolandi e a condurlo al Viminale dal capo della polizia Angelo Vicari, bene attento a non parlarne, come avrebbe dovuto, ai magistrati. Fu lui, giorni dopo, a dire a Vicari che «al momento del fatto, Pinelli era appoggiato di spalle alla finestra», un particolar­e, scrivono gli autori del libro, che «fa piazza pulita dei tuffi e balzi felini ripetuti dai sottuffici­ali presenti, dal tenente dei carabinier­i Lo Grano e dagli stessi Allegra e Calabresi». (Scatti felini, tuffi, balzi repentini e fulminei). Probabilme­nte Pinelli fu picchiato, colpito, spinto violenteme­nte verso la finestra e cadde.

Come mai, a esclusione del tenente dei carabinier­i, nessuno degli uomini della stanza ebbe un barlume di pietà e scese in cortile a vedere quell’uomo? Probabilme­nte perché nello studio del commissari­o Allegra si doveva frettolosa­mente decidere quel che si sarebbe dovuto fare e dire ai giornalist­i. («Gravemente indiziato di concorso in strage, Pinelli aveva gli alibi caduti. Un funzionari­o gli aveva rivolto contestazi­oni e lui era sbiancato in volto. (...) Nella stanza si stava parlando d’altro, una pausa, quando il Pinelli ebbe uno scatto improvviso, si gettò verso la finestra socchiusa perché il locale era pieno di fumo e si slanciò nel vuoto. Il suicidio è una evidente autoaccusa», come disse il questore Guida).

Chi c’era nella stanza del quarto piano della Questura di Milano quei giorni, quella notte? È impensabil­e che l’interrogat­orio di Pinelli, di grande rilievo per tutta l’inchiesta sulla strage, fosse affidato al commissari­o Luigi Calabresi, l’ultimo nella catena gerarchica. Dov’erano Russomanno, Catenacci e anche altri con gradi alti nei servizi, Alberto D’Agostino, Ermanno Alduzzi, Guglielmo Carlucci? Chi irruppe nella stanza e fece il saltafosso, tipico delle polizie, in questo caso l’urlo «Valpreda ha parlato»?

Calabresi quella notte, davanti a cinque giornalist­i, avallò le menzogne del questore Guida, non ebbe un moto di dissenso né di amarezza, ma questo non esclude che possa essere stato usato dai suoi superiori, tutti, come capro espiatorio e che i veri responsabi­li siano altri.

Nel maggio 2009 il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha parlato di Pinelli, figura innocente, «vittima due volte. Prima di pesantissi­mi, infondati sospetti, poi di un’improvvisa assurda fine». Ma non basta ancora. Manca una sentenza. Il Pinelli di Fuga e Maltini può aiutare. È un romanzone purtroppo vero, zeppo di spie, doppiogioc­histi, diavoli, angeli, traditori della patria, vittime, poliziotti dell’illegalità, figuranti di uno Stato che non ha avuto il coraggio di processare se stesso.

L’ipotesi Non si può affatto escludere che il commissari­o Calabresi sia stato usato come capro espiatorio dai suoi superiori

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