IL TENTATIVO AZZARDATO DI VOTARE PRESTO A OGNI COSTO
Il fatto che il sistema politico aspetti la sentenza della Corte costituzionale sull’Italicum per decidere la riforma elettorale è un segno di realismo e di saggezza; ma è anche la conferma di una rinuncia a rimodellare il sistema, e dunque al primato. Significa che i partiti si sono rassegnati a mettersi a rimorchio della Consulta, non avendo né maggioranze in grado di approvare una nuova legge né una visione del modello di governo, del quale il nuovo sistema dovrebbe essere la traduzione. È indicativo che anche la nomina del presidente della commissione Affari costituzionali del Senato slitterà.
Non che non si riesca a trovare il successore di Anna Finocchiaro, diventata ministro per i Rapporti con il Parlamento. Il problema è che si vuole qualcuno in grado di rispecchiare le indicazioni della Consulta e accelerare la corsa verso le elezioni. Le voci che danno un Silvio Berlusconi disposto a assecondare il voto a giugno in cambio di un ritorno al sistema proporzionale sono tutte da verificare. Ma dicono molto su un Pd passato in pochi mesi dall’idea di una democrazia che rende chiaro subito chi governerà e con chi, a uno schema che di fatto sarebbe l’opposto.
È possibile che il proporzionale si riveli il frutto inevitabile di una società e di un Parlamento frammentati. E significherà trattare con gli altri partiti dopo e non prima l’apertura delle urne. Ma questo farebbe capire che ormai per i vertici del Pd il «primum vivere» non è una riforma coerente con l’Italicum approvato e già archiviato per paura di perdere, ma la fine anticipata della legislatura. A quell’obiettivo, si può sacrificare il resto, per lavare la sconfitta referendaria del 4 dicembre. È il segno di un’involuzione. E mette in mora un governo appena nato, destinato a cadere per mano Pd. Il dopo Italicum I dem aspettano la Corte costituzionale ma sembrano pronti al compromesso sul proporzionale per avere le elezioni a giugno
Da quanto si intuisce, una qualunque legge sarà benvenuta: purché mostri la coerenza tra Camera e Senato pretesa dal capo dello Stato, Sergio Mattarella; e accorci i tempi per votare. Dietro si indovina la voglia di rivincita del vertice del Pd; e il timore di perdere centralità qualora la permanenza di Paolo Gentiloni a Palazzo Chigi si prolungasse fino al 2018. Già si percepisce uno spostamento oggettivo del baricentro del potere dal governo al Quirinale. E un qualche segnale di assestamento, che dovrebbe incoraggiare la stabilità.
Si assiste invece a una manovra scoperta, almeno finora ostacolata sia dall’esigenza di rimettere in ordine il sistema bancario; sia di rispettare nel modo più responsabile gli impegni internazionali che l’Italia avrà quest’anno. Ma si avverte anche una preoccupazione più profonda: e cioè che un nuovo strappo del Pd contro il suo governo sarà difficile da spiegare. Nella stagione renziana il M5S si è rafforzato, non indebolito. Adesso può sembrare in difficoltà, ma regalargli un’altra crisi di governo sarebbe una scelta suicida.