Corriere della Sera

IL TENTATIVO AZZARDATO DI VOTARE PRESTO A OGNI COSTO

- Di Massimo Franco

Il fatto che il sistema politico aspetti la sentenza della Corte costituzio­nale sull’Italicum per decidere la riforma elettorale è un segno di realismo e di saggezza; ma è anche la conferma di una rinuncia a rimodellar­e il sistema, e dunque al primato. Significa che i partiti si sono rassegnati a mettersi a rimorchio della Consulta, non avendo né maggioranz­e in grado di approvare una nuova legge né una visione del modello di governo, del quale il nuovo sistema dovrebbe essere la traduzione. È indicativo che anche la nomina del presidente della commission­e Affari costituzio­nali del Senato slitterà.

Non che non si riesca a trovare il successore di Anna Finocchiar­o, diventata ministro per i Rapporti con il Parlamento. Il problema è che si vuole qualcuno in grado di rispecchia­re le indicazion­i della Consulta e accelerare la corsa verso le elezioni. Le voci che danno un Silvio Berlusconi disposto a assecondar­e il voto a giugno in cambio di un ritorno al sistema proporzion­ale sono tutte da verificare. Ma dicono molto su un Pd passato in pochi mesi dall’idea di una democrazia che rende chiaro subito chi governerà e con chi, a uno schema che di fatto sarebbe l’opposto.

È possibile che il proporzion­ale si riveli il frutto inevitabil­e di una società e di un Parlamento frammentat­i. E significhe­rà trattare con gli altri partiti dopo e non prima l’apertura delle urne. Ma questo farebbe capire che ormai per i vertici del Pd il «primum vivere» non è una riforma coerente con l’Italicum approvato e già archiviato per paura di perdere, ma la fine anticipata della legislatur­a. A quell’obiettivo, si può sacrificar­e il resto, per lavare la sconfitta referendar­ia del 4 dicembre. È il segno di un’involuzion­e. E mette in mora un governo appena nato, destinato a cadere per mano Pd. Il dopo Italicum I dem aspettano la Corte costituzio­nale ma sembrano pronti al compromess­o sul proporzion­ale per avere le elezioni a giugno

Da quanto si intuisce, una qualunque legge sarà benvenuta: purché mostri la coerenza tra Camera e Senato pretesa dal capo dello Stato, Sergio Mattarella; e accorci i tempi per votare. Dietro si indovina la voglia di rivincita del vertice del Pd; e il timore di perdere centralità qualora la permanenza di Paolo Gentiloni a Palazzo Chigi si prolungass­e fino al 2018. Già si percepisce uno spostament­o oggettivo del baricentro del potere dal governo al Quirinale. E un qualche segnale di assestamen­to, che dovrebbe incoraggia­re la stabilità.

Si assiste invece a una manovra scoperta, almeno finora ostacolata sia dall’esigenza di rimettere in ordine il sistema bancario; sia di rispettare nel modo più responsabi­le gli impegni internazio­nali che l’Italia avrà quest’anno. Ma si avverte anche una preoccupaz­ione più profonda: e cioè che un nuovo strappo del Pd contro il suo governo sarà difficile da spiegare. Nella stagione renziana il M5S si è rafforzato, non indebolito. Adesso può sembrare in difficoltà, ma regalargli un’altra crisi di governo sarebbe una scelta suicida.

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