LE RIFORME ATTRAENTI SONO QUELLE DAVVERO EQUE
Priorità Nel 2016 le iniziative di cambiamento delle democrazie occidentali sono fallite. Renderle interessanti agli occhi di chi vota, è il primo passo per realizzarle
Il 2016 è stato l’annus horribilis delle politiche riformiste delle democrazie occidentali.
Stavano provando a lanciare riforme per cambiare leggi e Istituzioni allo scopo di fronteggiare le sfide di questo secolo alle società ed economie aperte a immigrazione, globalizzazione e tecnologia, ma si sono scontrate con cittadini delusi dalla crescente disuguaglianza e dal terrorismo islamico. Così gli inglesi hanno bocciato Cameron che tentava di riformare il rapporto tra Regno Unito e Ue, credendo a spot pubblicitari efficaci che mostravano una anziana signora malata che andava all’ospedale e trovava un cartello «completo» e una lunga fila di immigrati.
Lo stesso è avvenuto da noi dove la maggioranza degli italiani, i più falcidiati dalla lunga crisi economica, ha bocciato la riforma costituzionale di Matteo Renzi perché non considerata la priorità del Paese.
Ai riformatori falliti del mondo occidentale si stanno opponendo due alternative «populiste» molto diverse tra loro.
La prima è quella dei 5 Stelle, Podemos, Sanders che, in modo diverso, portano avanti una proposta «rivoluzionaria» che bolla tutte le iniziative di riforma come inefficaci e asservite agli interessi di non meglio specificati poteri e ovviamente incapaci di rendere la società più giusta. Secondo questi «rivoluzionari del 21° secolo», la trasformazione si ottiene mandando a casa l’attuale classe dirigente e sostituendola con espressioni politiche che vedano la partecipazione diretta del popolo, attraverso la Rete, le piazze e forme di auto aggregazioni che superano i partiti. Ovviamente i rivoluzionari si ritengono investiti di una superiorità morale e sono, come dice Beppe Grillo, «migliori».
L’altra alternativa emergente è quella che l’Economist chiama «retrotropia» e l’opinionista Moises Naim «necrofilia ideologica», un amore utopico per il passato e i suoi valori, nazionalismo, purezza etnica, economia delle fabbriche e dei good jobs (in una economia in cui le fabbriche stanno riducendosi anche in Cina, a favore dei servizi). Nascono gli slogan come make America great again e crescono i Trump, Le Pen, Salvini. Meglio la concretezza Non giova raccontare di avere la bacchetta magica per far ripartire l’Italia ferma da 25 anni
In questo scenario , qual è il futuro dei «riformisti» italiani e quali le implicazioni per lo scenario politico del nuovo anno?
L’unica strada possibile oggi per un riformista è legittimare le riforme politiche e renderle attraenti agli occhi di chi vota. Non è facile, ma è possibile.
Il governo Renzi si era inizialmente focalizzato sulla grande priorità del Paese, la crescita economica e la riduzione delle ineguaglianze e delle ingiustizie.
Lo aveva fatto con il Jobs act che ha dato flessibilità alle imprese attaccando il tabù dell’articolo 18, ma contemporaneamente ha ridotto l’apartheid tra gli ultraprotetti e superprecari; con gli 80 euro ha poi ridotto le tasse a chi le tasse le paga e cioè ai lavoratori dipendenti e ha contemporaneamente contribuito ai consumi e all’economia.
Gli italiani sembrano avere apprezzato queste riforme anche se non sono mancate le critiche per come sono state attuate (esempio i voucher) e comunicate (la «mancia» degli 80 euro). La disapprovazione è aumentata su tutta una serie di altre riforme che deviavano dal focus crescita economica /equità come la riduzione delle tasse sulla prima casa e il bonus cultura che sono stati percepiti come populismi sospetti. È poi esplosa sulla «buona scuola» che si è rivelata «buona» per i docenti (che peraltro non l’hanno neanche apprezzata) e pessima per gli studenti.
Tutto ciò insegna che è fondamentale restare focalizzati sulle riforme urgenti per la crescita economica e la riduzione delle diseguaglianze, continuando con la riduzione delle tasse, la lotta all’evasione, la deburocratizzazione e riformando drasticamente la giustizia civile, sulla quale si è iniziato un timido cammino. Sul resto, serve avere una direzione chiara a lungo termine e cantieri di cambiamento (come la valutazione dei docenti della scuola e l’apprendistato, suggerito su queste pagine da Ferruccio de Bortoli), non grandi riforme.
Evitare poi di comunicare di avere «la bacchetta magica» che fa ripartire in tre anni un Paese fermo da 25 ed essere poi più efficaci sul come fare le riforme, non solo concepire bene quelle giuste. La «buona scuola» è fallita non solo perché non era ben concepita, ma anche per come è stata realizzata.
Per realizzare bene le riforme ci vuole una squadra di ministri di grande qualità e non più un one man show, e l’allineamento di molti, non conflittualità estrema.