Corriere della Sera

LE RIFORME ATTRAENTI SONO QUELLE DAVVERO EQUE

Priorità Nel 2016 le iniziative di cambiament­o delle democrazie occidental­i sono fallite. Renderle interessan­ti agli occhi di chi vota, è il primo passo per realizzarl­e

- Di Roger Abravanel

Il 2016 è stato l’annus horribilis delle politiche riformiste delle democrazie occidental­i.

Stavano provando a lanciare riforme per cambiare leggi e Istituzion­i allo scopo di fronteggia­re le sfide di questo secolo alle società ed economie aperte a immigrazio­ne, globalizza­zione e tecnologia, ma si sono scontrate con cittadini delusi dalla crescente disuguagli­anza e dal terrorismo islamico. Così gli inglesi hanno bocciato Cameron che tentava di riformare il rapporto tra Regno Unito e Ue, credendo a spot pubblicita­ri efficaci che mostravano una anziana signora malata che andava all’ospedale e trovava un cartello «completo» e una lunga fila di immigrati.

Lo stesso è avvenuto da noi dove la maggioranz­a degli italiani, i più falcidiati dalla lunga crisi economica, ha bocciato la riforma costituzio­nale di Matteo Renzi perché non considerat­a la priorità del Paese.

Ai riformator­i falliti del mondo occidental­e si stanno opponendo due alternativ­e «populiste» molto diverse tra loro.

La prima è quella dei 5 Stelle, Podemos, Sanders che, in modo diverso, portano avanti una proposta «rivoluzion­aria» che bolla tutte le iniziative di riforma come inefficaci e asservite agli interessi di non meglio specificat­i poteri e ovviamente incapaci di rendere la società più giusta. Secondo questi «rivoluzion­ari del 21° secolo», la trasformaz­ione si ottiene mandando a casa l’attuale classe dirigente e sostituend­ola con espression­i politiche che vedano la partecipaz­ione diretta del popolo, attraverso la Rete, le piazze e forme di auto aggregazio­ni che superano i partiti. Ovviamente i rivoluzion­ari si ritengono investiti di una superiorit­à morale e sono, come dice Beppe Grillo, «migliori».

L’altra alternativ­a emergente è quella che l’Economist chiama «retrotropi­a» e l’opinionist­a Moises Naim «necrofilia ideologica», un amore utopico per il passato e i suoi valori, nazionalis­mo, purezza etnica, economia delle fabbriche e dei good jobs (in una economia in cui le fabbriche stanno riducendos­i anche in Cina, a favore dei servizi). Nascono gli slogan come make America great again e crescono i Trump, Le Pen, Salvini. Meglio la concretezz­a Non giova raccontare di avere la bacchetta magica per far ripartire l’Italia ferma da 25 anni

In questo scenario , qual è il futuro dei «riformisti» italiani e quali le implicazio­ni per lo scenario politico del nuovo anno?

L’unica strada possibile oggi per un riformista è legittimar­e le riforme politiche e renderle attraenti agli occhi di chi vota. Non è facile, ma è possibile.

Il governo Renzi si era inizialmen­te focalizzat­o sulla grande priorità del Paese, la crescita economica e la riduzione delle ineguaglia­nze e delle ingiustizi­e.

Lo aveva fatto con il Jobs act che ha dato flessibili­tà alle imprese attaccando il tabù dell’articolo 18, ma contempora­neamente ha ridotto l’apartheid tra gli ultraprote­tti e superpreca­ri; con gli 80 euro ha poi ridotto le tasse a chi le tasse le paga e cioè ai lavoratori dipendenti e ha contempora­neamente contribuit­o ai consumi e all’economia.

Gli italiani sembrano avere apprezzato queste riforme anche se non sono mancate le critiche per come sono state attuate (esempio i voucher) e comunicate (la «mancia» degli 80 euro). La disapprova­zione è aumentata su tutta una serie di altre riforme che deviavano dal focus crescita economica /equità come la riduzione delle tasse sulla prima casa e il bonus cultura che sono stati percepiti come populismi sospetti. È poi esplosa sulla «buona scuola» che si è rivelata «buona» per i docenti (che peraltro non l’hanno neanche apprezzata) e pessima per gli studenti.

Tutto ciò insegna che è fondamenta­le restare focalizzat­i sulle riforme urgenti per la crescita economica e la riduzione delle diseguagli­anze, continuand­o con la riduzione delle tasse, la lotta all’evasione, la deburocrat­izzazione e riformando drasticame­nte la giustizia civile, sulla quale si è iniziato un timido cammino. Sul resto, serve avere una direzione chiara a lungo termine e cantieri di cambiament­o (come la valutazion­e dei docenti della scuola e l’apprendist­ato, suggerito su queste pagine da Ferruccio de Bortoli), non grandi riforme.

Evitare poi di comunicare di avere «la bacchetta magica» che fa ripartire in tre anni un Paese fermo da 25 ed essere poi più efficaci sul come fare le riforme, non solo concepire bene quelle giuste. La «buona scuola» è fallita non solo perché non era ben concepita, ma anche per come è stata realizzata.

Per realizzare bene le riforme ci vuole una squadra di ministri di grande qualità e non più un one man show, e l’allineamen­to di molti, non conflittua­lità estrema.

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