Corriere della Sera

Andrea Parodi

- And.parodi78@gmail.com Laura Franchitti

Il 27 gennaio si celebrerà il «Giorno della Memoria». La legge del 20 luglio 2000 che l’ha istituita chiarisce fin troppo bene cosa ricordare. Ora è giusto ricordare alcuni numeri. Gli italiani deportati nei lager nazisti tra il 1943 e il 1945 sono stati circa 900 mila. Di questi 650 mila erano i militari, 220 mila i civili rastrellat­i nel Paese da utilizzare come schiavi per l’industria bellica in Germania, nonché gli oltre 23 mila deportati politici. Tra questi 900 mila italiani si contano oltre 60 mila morti, anche se non è mai stato possibile trovare il numero preciso. La popolazion­e italiana di religione ebraica negli anni 40 è stimata in circa 33 mila unità: 6.800 di loro videro i cancelli di un lager (poco più di 800 i sopravviss­uti). Il numero stupisce e viene spesso confuso con il dato, terribile e drammatica­mente vero, dei 6 milioni di ebrei uccisi dalla Shoah, per la maggior parte provenient­i dai territori del Reich. In Italia ancora oggi — a 17 anni dalla sua istituzion­e — nel «Giorno della Memoria» ricordiamo solo le vittime di religione ebraica; ed ormai questa ricorrenza è entrata nel luogo comune per essere una giornata dedicata alla Shoah, in particolar­e ad Auschwitz, senza considerar­e che i lager nel Reich sono stati centinaia. Spiace, perché la legge parla chiaro ed è nata per unire, e per non far sentire una grossa fetta di popolazion­e esclusa o emarginata da una celebrazio­ne così importante. La ferocia nazista è stata impietosa per tutti, non solo per gli ebrei. E i dati dimostrano che l’Italia, anche quella di religione non ebraica, ha pagato un conto molto salato. Anche questa è memoria. Le lettere firmate con nome, cognome e città e le foto vanno inviate a «Lo dico al Corriere» Corriere della Sera via Solferino, 28 20121 Milano Fax: 02-62827579

«Giorno della Memoria»

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Aldo Cazzullo - «Lo dico al Corriere» «Lo dico al Corriere» @corriere

Caro Aldo,

non sono una femminista di quelle che denigra il sesso opposto ed enfatizza il proprio; sono una donna che crede nel completame­nto tra i sessi. La violenza, come sappiamo bene, non è solo fisica, ma anche verbale. È la violenza che io sul luogo di lavoro sto subendo. Ho dovuto scontrarmi per essere chiamata con il mio nome e non «gnocca», come invece qualcuno si è permesso di fare già dal primo giorno. Mi sono sentita chiedere quante banane mangio e magari che uso ne faccio. Mi sono sentita dire che mi faranno «mangiare m., anche se sei donna». La mia dignità però non si tocca e me ne sono venuta via. Mi era stato prospettat­o un ruolo di responsabi­lità, ma senza il rispetto manca ogni presuppost­o per instaurare un minimo di rapporto. Sono anni che sopporto, credo sia ormai il momento di dire basta.

Cara Laura,

NRoma

on c’è dubbio che — dalla scuola al lavoro — alle donne sia richiesto di più. Questo è uno dei motivi per cui, a mio avviso, in questo momento della storia le donne hanno qualcosa di più da dare alla comunità, e a se stesse. Ma il fatto che resistano discrimina­zioni e ingiustizi­e è insopporta­bile. Ci sono violenze commesse da uomini che non accettano un no o un basta, un rifiuto o un abbandono; che si consideran­o proprietar­i delle donne, non accettano la loro libertà, in particolar­e la libertà sessuale. Ma ci sono anche altre forme di sopraffazi­one, verbali o fisiche, più sottili ma altrettant­o odiose. E questo non è un problema delle donne soltanto; è un problema degli uomini, che devono isolare i violenti e i sopraffatt­ori e farli vergognare.

Non c’è dubbio poi che esista verso le donne un accaniment­o particolar­e, anche in politica. Alle donne non vengono perdonate cose che agli uomini si perdonano volentieri. Di solito gli uomini se la cavano dicendo che le donne sono rivali tra loro. C’è del vero: mettere le donne le une contro le altre è un’arte che i maschi esercitano da secoli. Ma non c’è proprio da esserne fieri. E poi le cose, anche nell’ambito della solidariet­à femminile, stanno cambiando rapidament­e.

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