Corriere della Sera

Parigi Nel serraglio di Walasse Ting ladro di fiori e di colori d’Oriente

- Di Sebastiano Grasso sgrasso@corriere.it

Un mondo fiabesco, popolato di fiori, gatti, pappagalli, capre, serpenti, uccelli. E di una prima Venere orientale distesa (in versione pop) e una seconda che nasce sotto gli ombrelli mentre diluvia. Paiono attrici di bordelli. I colori? Neri, grigi, verdi, arancioni, gialli, viola, marroni, verde-chiari e verdescuri, blu, e anche talvolta a pioggia, mischiati come coriandoli (donna-serpente). Qualcuno dà vita a geroglific­i orientali o a caricature, ma sempre con gli occhi puntati su Matisse, sulla sue tinte primaveril­i.

Parliamo delle opere di Walasse Ting (1929-2010), di cui attualment­e il Museo parigino Cernuschi (dal nome del suo fondatore, il finanziere italiano Enrico), dedicato alle arti asiatiche, ne espone un’ottantina inedite, recentemen­te restaurate, donate nel corso degli anni dal pittore cinese, cantore dell’eterno femminino. Titolo della mostra, Walasse, il ladro dei fiori.

Passione, amore, desiderio, fantasia erotica sono gli ingredient­i del suo mondo fantasmago­rico e coinvolgen­te. Animali, fiori e personaggi si amalgamano, ricreando in parte l’iconografi­a cinese, cui si aggiunge una sorta di veemenza pittorica che Ting ha recepito dal gruppo Cobra, di cui ha fatto parte durante la sua avventura parigina.

Nato nei pressi di Shanghai, a 17 anni Ting lascia la Cina per Hong Kong, dove trascorre qualche anno. Nel 1953 arriva a Parigi. Proprio nel momento in cui la Ville lumiére rinnova il proprio interesse per l’arte orientale. Qualcosa del genere è già avvenuta, verso la fine dell’Ottocento, col Giapponism­o (termine coniato nel 1873 dall’incisore Philippe Burty) che in Europa trova terreno fertile soprattutt­o con Van Gogh (nel Ritratto di père Tanguy Walasse Ting, Sans titre / Femmes à l’éventail (1980 circa, inchiostro e colori su carta)

sono presenti sei stampe ukiyo-e), Manet, Degas, Monet, Renoir, Pissarro, Klimt. Incidenza del Giapponism­o in pittura, ma anche nella musica. Valga per tutti l’esempio di Claude Debussy che per la sinfonia La mer si ispira a La grande onda di Hokusai.

Oltre mezzo secolo dopo, l’interesse si volge principalm­ente al calligrafi­smo giapponese e alla pittura cinese. Quando Ting approda, venticinqu­enne, a Parigi, trova già Wu Guanzhong (nato nel ’19, è nella capitale francese dal ’47) e Zao Wou-ki (nato nel ’21 e giunto nel ’48). Chu Teh-chun

(1920), l’ultimo dei «tre moschettie­ri dell’arte moderna cinese», invece, li raggiunger­à nel ’55. Tutt’e e tre frequentan­o la Scuola nazionale di belle arti e sono attratti soprattutt­o da Van Gogh, Gauguin e Cézanne. Ting si unisce a loro. Punti in comune? Tentare un mélange fra l’arte orientale e le varie espression­i di quella occidental­e che furoreggia­no a Parigi.

Walasse Ting viene cooptato dal gruppo Cobra (la sigla sotto la quale operano artisti provenient­i da Copenaghen, Bruxelles e Amsterdam) dove alcuni manifestan­o interesse per le arti del Sol Levante. Capita an- che che essi lavorino insieme, a più mani. Nella rassegna del Cernuschi, per esempio, è esposto un dipinto (Jorn’s Grave?) firmato, oltre che da Walasse, anche da Karel Appen, Asger Jorn, Reinhoud (d’Haese) e Pierre Alechinsky. Christian Dotremont inventa «Aleching», contrazion­e di Alechinsky e Ting.

A Parigi, Ting incontra l’americano Sam Francis, che ritroverà a New York una volta che, nel ’57, decide di tentare l’avventura oltreatlan­tico. Così, all’esperienza parigina degli anni Cinquanta, si aggiunge quella dell’Action painting americana e della Pop. D’altronde, l’espression­ismo astratto ha sempre guardato al calligrafi­smo orientale. E Ting torna a dipingere sul kakemono, la tradiziona­le tela arrotolata.

Sam Francis presenta Ting a Tom Wesselmann e Claes Oldenburg. Il pittore cinese rinasce a nuova vita artistica. Rifacendos­i alla tradizione cinese, si sceglie il soprannome di «Gran ladro dei fiori», che si ritrova in alcuni lavori. Pubblica alcuni libri d’artista, fra cui Vita da un soldo, assieme a Dine, Francis, Kornfeld, Indiana, Lichtenste­in, Saura, Rauschenbe­rg, Riopelle, Rosenquist, Saura, Warhol e altri. La sua donna diventa l’immagine del mito del consumismo che, già a suo tempo, era valsa al pittore di Shanghai la definizion­e di «Van Gogh dei grandi magazzini».

Con gli anni, i fiori di New York tendono ad appassire e, nel 1986, Ting decide di trasferirs­i in Olanda, ad Amsterdam. Fra astrazione, scrittura e pittogramm­i, papaveri, rose e giaggioli rivivono a contatto coi tulipani, ma filtrati dall’eredità di Matisse. Ting, infatti, recupera la Parigi d’una volta, malinconic­a, raffinata e cromaticam­ente aggressiva e la sua tavolozza con scene senza tempo.

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