L’AUTODISCIPLINA NON BASTA A VINCERE SULL’ODIO SOCIAL
Il tema delle notizie false, su cui oggi si discute, rientra nel capitolo più generale e meno esplorato che riguarda il mercato dei dati personali. O, come l’ha definito Antonio Nicita dell’Agcom in un intervento sul Foglio, il «mercato della verità». Il punto da tenere a mente è soprattutto uno. Sui social network, i contenuti informativi prodotti dai media professionali assumono lo stesso rilievo dei contenuti generati dagli utenti. Esempio: l’algoritmo alla base della sezione notizie di Facebook, la più consultata del sito, ordina le informazioni in base alla vicinanza dei punti di vista (i post degli amici, raramente verificati) e al sostegno in termini di «mi piace» e di condivisioni. Ma non attribuisce alcun valore alla credibilità, alla qualità giornalistica e alla rilevanza in termini di interesse pubblico.
Dagli studi emerge un dato sconcertante: gli utenti che personalizzano di più la propria «dieta» informativa, usando i filtri delle piattaforme e le applicazioni di news, sono anche i meno interessati a verificare l’attendibilità delle fonti. I più creduloni.
Ma come si comportano i colossi di Internet, protagonisti del mercato dei dati personali? Questo mercato rappresenta la loro principale fonte di ricavi in termini di pubblicità «mirata», con profitti enormemente più alti di quelli degli editori tradizionali. Per capirci: nel primo trimestre 2015, il giornale più autorevole del mondo, il New York Times, ha fatto cinquanta milioni di dollari di utili, la società di
Mark Zuckerberg un miliardo e mezzo.
E proprio Facebook, dopo aver a lungo minimizzato il problema delle falsità in Rete, ha compiuto una svolta. Dopo aver ammesso (finalmente!) di essere «una nuova forma di media company», ha reso più facile la segnalazione delle bufale affidandola a un organismo «terzo» composto da importanti realtà mediatiche come Abc News e Associated Press e da siti di fact-checking (il controllo dei fatti che poi sarebbe il mestiere del giornalismo) come FactCheck.org e PolitiFact.com. Qualcosa di simile ha fatto anche Google in collaborazione con FullFact.org.
Nel maggio 2016, inoltre, Facebook, Google, Microsoft e Twitter hanno sottoscritto un codice di condotta con la commissaria Ue alla Giustizia Vera Jourova che li impegna a rimuovere in ventiquattr’ore i contenuti che incitano all’odio. Cui il tema delle bufale è strettamente collegato. E rappresenta un’altra, inquietante caratteristica del mercato dei dati personali versione social.
Si tratta di svolte positive, soprattutto se le novità annunciate saranno messe in pratica e se gli organismi esterni di controllo si dimostreranno davvero neutrali. C’è però un altro aspetto più grave. Oltre alle falsità propagate da fonti non professionali, rivela uno studio riservato dell’Agcom, prospera una vera «industria della bufala» (la definizione è nostra).
Ci sono organizzazioni e siti di propaganda che diffondono bugie per influenzare l’opinione pubblica: in particolare sui temi politici più caldi. Alcuni lo fanno semplicemente per creare clamore, guadagnare clic e relativi introiti pubblicitari. Altri per portare vantaggi alla propria parte politica. E approfittano dell’atmosfera di sfiducia, di disillusione e di negatività che segna la discussione sui social media.
Il mercato dei dati personali è insomma, di fatto, privo di controlli e in mano a pochi giganti. Senza collaborazione tra le autorità indipendenti nazionali e tra i Paesi, senza una più forte iniziativa europea, si può sperare solo nell’autodisciplina degli oligopolisti. Decisamente troppo poco.
@SegantiniE
Criterio Contano ancora troppo i «mi piace» e la vicinanza dei punti di vista degli utenti