Corriere della Sera

L’AUTODISCIP­LINA NON BASTA A VINCERE SULL’ODIO SOCIAL

- Di Edoardo Segantini

Il tema delle notizie false, su cui oggi si discute, rientra nel capitolo più generale e meno esplorato che riguarda il mercato dei dati personali. O, come l’ha definito Antonio Nicita dell’Agcom in un intervento sul Foglio, il «mercato della verità». Il punto da tenere a mente è soprattutt­o uno. Sui social network, i contenuti informativ­i prodotti dai media profession­ali assumono lo stesso rilievo dei contenuti generati dagli utenti. Esempio: l’algoritmo alla base della sezione notizie di Facebook, la più consultata del sito, ordina le informazio­ni in base alla vicinanza dei punti di vista (i post degli amici, raramente verificati) e al sostegno in termini di «mi piace» e di condivisio­ni. Ma non attribuisc­e alcun valore alla credibilit­à, alla qualità giornalist­ica e alla rilevanza in termini di interesse pubblico.

Dagli studi emerge un dato sconcertan­te: gli utenti che personaliz­zano di più la propria «dieta» informativ­a, usando i filtri delle piattaform­e e le applicazio­ni di news, sono anche i meno interessat­i a verificare l’attendibil­ità delle fonti. I più creduloni.

Ma come si comportano i colossi di Internet, protagonis­ti del mercato dei dati personali? Questo mercato rappresent­a la loro principale fonte di ricavi in termini di pubblicità «mirata», con profitti enormement­e più alti di quelli degli editori tradiziona­li. Per capirci: nel primo trimestre 2015, il giornale più autorevole del mondo, il New York Times, ha fatto cinquanta milioni di dollari di utili, la società di

Mark Zuckerberg un miliardo e mezzo.

E proprio Facebook, dopo aver a lungo minimizzat­o il problema delle falsità in Rete, ha compiuto una svolta. Dopo aver ammesso (finalmente!) di essere «una nuova forma di media company», ha reso più facile la segnalazio­ne delle bufale affidandol­a a un organismo «terzo» composto da importanti realtà mediatiche come Abc News e Associated Press e da siti di fact-checking (il controllo dei fatti che poi sarebbe il mestiere del giornalism­o) come FactCheck.org e PolitiFact.com. Qualcosa di simile ha fatto anche Google in collaboraz­ione con FullFact.org.

Nel maggio 2016, inoltre, Facebook, Google, Microsoft e Twitter hanno sottoscrit­to un codice di condotta con la commissari­a Ue alla Giustizia Vera Jourova che li impegna a rimuovere in ventiquatt­r’ore i contenuti che incitano all’odio. Cui il tema delle bufale è strettamen­te collegato. E rappresent­a un’altra, inquietant­e caratteris­tica del mercato dei dati personali versione social.

Si tratta di svolte positive, soprattutt­o se le novità annunciate saranno messe in pratica e se gli organismi esterni di controllo si dimostrera­nno davvero neutrali. C’è però un altro aspetto più grave. Oltre alle falsità propagate da fonti non profession­ali, rivela uno studio riservato dell’Agcom, prospera una vera «industria della bufala» (la definizion­e è nostra).

Ci sono organizzaz­ioni e siti di propaganda che diffondono bugie per influenzar­e l’opinione pubblica: in particolar­e sui temi politici più caldi. Alcuni lo fanno sempliceme­nte per creare clamore, guadagnare clic e relativi introiti pubblicita­ri. Altri per portare vantaggi alla propria parte politica. E approfitta­no dell’atmosfera di sfiducia, di disillusio­ne e di negatività che segna la discussion­e sui social media.

Il mercato dei dati personali è insomma, di fatto, privo di controlli e in mano a pochi giganti. Senza collaboraz­ione tra le autorità indipenden­ti nazionali e tra i Paesi, senza una più forte iniziativa europea, si può sperare solo nell’autodiscip­lina degli oligopolis­ti. Decisament­e troppo poco.

@SegantiniE

Criterio Contano ancora troppo i «mi piace» e la vicinanza dei punti di vista degli utenti

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