«Le leggi non fermino il progresso»
Rafael Reif, presidente del Mit: ci sono troppi sospetti verso l’intelligenza artificiale
«La tecnologia continuerà ad avanzare, non c’è modo di fermarla. Ci saranno perciò numerose opportunità ma anche grosse sfide, come riconvertire le professionalità di chi rischia di perdere il posto di lavoro oppure stabilire regole etiche al momento opportuno. Scrivere le leggi prima che le tecnologie siano in campo, infatti, è molto difficile. È la tecnologia purtroppo che deve condurre. Regolare in anticipo, prima che le cose accadano, rischia di ritardare il progresso».
Mentre l’Europarlamento si muove per «disciplinare» le intelligenze artificiali, Rafael Reif, presidente del Massachusetts Institute of Technology (Mit), eccellenza mondiale nella ricerca tecnologica, restringe, senza però escluderla, l’esigenza di regolamentare. Nato in Venezuela nel 1950, ingegnere elettronico, parla al «Corriere» a Roma, nella sede dell’Eni, dove è volato per firmare con l’amministratore delegato del colosso dell’energia, Claudio Descalzi, il rinnovo della collaborazione nella ricerca avviata nel 2008.
Più in dettaglio, Reif sostiene che le regole vadano stabilite, ma solo «quando sia possibile prevedere che un certo sviluppo tecnologico porterà conseguenze pericolose. Fissare invece leggi sulla base di ipotesi, quando qualcosa non è prevedibile, può impedire di far avanzare la tecnologia, senza sapere con certezza se quello che si vuole evitare possa poi accadere in ogni caso». Chiarisce la sua posizione con alcuni esempi. «Partiamo da Crispr, una tecnica che serve a modificare il genoma. In questo caso — spiega — non è difficile immaginare alcune possibili derive dell’intervento sui geni e dunque ha senso regolamentare e dire di non andare in una certa direzione».
Il secondo esempio riguarda le intelligenze artificiali. «Bisogna innanzitutto distinguere tra diversi rami di studio — premette Reif —. Uno è il machine learning, ovvero la costruzione di macchine che apprendono compiti per aiutare l’uomo. In questo caso i dispositivi imparano solo quello che noi decidiamo loro di insegnare: potranno diventare molto bravi ed evolversi, ma non assumeranno il controllo universale. Solo se imparassero così tanto da diventare super potenti rispetto ai nostri cervelli, allora dovremmo preoccuparci, ma siamo ancora molto lontani da questo stadio». A tal proposito, ricorda, c’è un secondo ramo di studi sull’intelligenza artificiale «che mira a replicare il modo di pensare dell’uomo. Ma ci vorrà comunque tanto tempo, certamente non i 20-25 anni che qualcuno ipotizza».
Spiega quando dovrebbe scattare la soglia di allerta, e dunque la regolamentazione, attraverso il caso concreto di un drone, perché «le intelligenze artificiali di cui eventualmente preoccuparsi sono quelle applicate
alle macchine in movimento, come i robot, le auto o i droni». «Prendiamo dunque un drone dotato di armi, che può aprire il fuoco. Esiste già, ma per ora non è in grado di apprendere e fa solo quello che gli si ordina. Lo stadio successivo è il machine learning: potrei fornirgli, ad esempio, 20 mila foto di una persona e dirgli di riconoscerla e ucciderla. Anche in questo caso, starebbe comunque ancora eseguendo un mio ordine. Il passo ulteriore, quello a partire dal quale preoccuparsi, è il momento in cui arriverà a fare scelte da solo: potrebbe, ad esempio, individuare un’altra persona, decidere che è ugualmente pericolosa ed eliminarla. Quando gli daremo questa capacità sarà un problema. Ma sarà comunque l’uomo ad assegnargliela e a dover porre, in questo caso sì, divieti assoluti, perché saremo già in grado di prevedere quello che potrà succedere».
La previsione attraverso la conoscenza, è d’altra parte una delle linee guida del Mit. Nel 2015 l’Istituto ha lanciato un piano quinquennale «per agire sul cambiamento climatico» che ha come primo obiettivo proprio «il progresso del sapere sul riscaldamento globale». Anche per mettere alcuni punti fermi: «Abbiamo raccolto abbastanza dati per dire che il riscaldamento esiste, che stiamo inquinando l’atmosfera, che abbiamo 25-30 anni prima che il clima diventi irreversibilmente instabile — dice Reif — e dunque, in questo arco di tempo dobbiamo costruire un pianeta decarbonizzato». Il prescoperta
sidente eletto degli Stati Uniti, Donald Trump, ha sostenuto di «non credere nel cambiamento climatico di origine antropica». E lo scorso novembre, alla conferenza Onu sul clima di Marrakech — salvo poi mostrarsi più aperto la settimana successiva — indiscrezioni parlavano della sua intenzione di uscire dagli Accordi di Parigi, la storica intesa per ridurre le emissioni e mantenere il riscaldamento al di sotto dei 2 gradi rispetto all’era preindustriale. «Volete sapere se siamo preoccupati? Un po’, ma Trump ha detto molte cose durante la campagna, vediamo che cosa davvero dirà e farà alla Casa Bianca. Resta comunque ferma la nostra convinzione — continua Reif —, basata su dati scientifici, che il cambiamento climatico sia reale e che il Mit non possa ignorarlo. Voglio credere che il governo federale lo reputi altrettanto importante. Ma se anche deciderà che non è una priorità, noi andremo avanti».
«Al Mit infatti — dichiara il presidente — siamo convinti di non dover solo formare gli studenti ma che il nostro compito sia anche applicare la conoscenza per risolvere le sfide del pianeta». Da maggio la comunicazione dell’Istituto punta sulla «Mit campaign for a better world» (Campagna del Mit per un mondo migliore): un contenitore ad alto tasso ideale in cui sono raccolti i principali ambiti di lavoro. «Si va, appunto, dal clima fino agli studi sulle malattie della mente nell’età senile, in crescita, visto che si vive più a lungo — spiega Reif —. In questo campo è stata
un mese fa una tecnica per fermare e far regredire l’Alzheimer nei topi e adesso andrà testato sull’uomo». Innalzare gli obiettivi è parte integrante, secondo Reif, del «metodo Mit»: «Il campus ospita persone di 152 nazionalità e quando le si pone di fronte a scopi tanto elevati, altre questioni, come quella razziale, si annullano. Non conta la diversità, ma ciò che ciascuno apporta. Anche la società dovrebbe ispirarsi a una simile
Il modello Il campus ospita 152 nazionalità: di fronte a obiettivi di scala planetaria le differenze si annullano e si concorre a una causa comune
La scoperta Un mese fa è stato trovato un modo per fermare l’Alzheimer nei topi. Entro breve tempo verrà avviata la sperimentazione sugli uomini
convivenza».
La carica visionaria di Reif non ne annulla comunque il senso pratico. «Se il primo obiettivo del piano sul clima è la conoscenza, il secondo è sviluppare la tecnologia per decarbonizzare e avviare la transizione ad altre risorse». Racconta l’aneddoto di un professore che entrò nel suo studio con una lampadina e un cavetto in mano. Prese un pezzo di carta e la lampadina si accese. Sul foglio c’era il primo prototipo di una piccola cella solare trasparente e flessibile, «con cui si potranno un giorno rivestire interi edifici».
«Il terzo obiettivo del piano — prosegue il presidente — è coinvolgere altri partner, dalle imprese energetiche alle agenzie e gli uffici governativi. Per avere un impatto sulla realtà serve uscire dall’accademia, e due sono le strade. Farlo da soli attraverso le startup, che infatti sono numerose attorno al Mit, ad esempio quelle concentrate sullo stoccaggio delle energie rinnovabili. E poi attraverso partnership forti con aziende “visionarie”, come appunto Eni». Quest’ultima è tra i membri fondatori di Mitei (Mit Energy Initiative). Ovvero il centro dell’Istituto che mira a trovare soluzioni a basse o zero emissioni e coinvolge appunto i colossi dell’energia (tra i fondatori anche Bp, Shell, Saudi Aramco, ExxonMobil, con Eni al momento principale sponsor industriale).
«Ai professori del Mit — ribadisce Reif — non basta un’ idea brillante e l’applauso dei colleghi: vogliono raggiungere il mercato e avere un impatto su scala globale».