«Dalle sue menzogne affiora la verità segreta»
Nel poster, «Pinocchio» abbraccia un pezzo di legno con aria malinconica, che gli sta addosso come una protesi, mentre il palco dello Strehler ospita un grande tronco mozzo, metafora di quel famoso pezzo di legno: pioverà neve in trucioli, svelato meccanismo dell’artigianalità teatrale, incantesimo che rotola nel cielo delle quinte. Latella, il più inventivo regista su piazza, si prepara a una sfida «tra due modalità di vivere, quella realistica di mastro Ciliegia e la favolistica di Geppetto».
Depura il personaggio dai danni disneyani e ne mostra il lato inedito in uno spettacolo per tutti, bambini compresi «che devono toccare con mano anche la fine». Quella del burattino è materia incandescente. Reduce dall’immensa dinasty degli Atridi (Santa
Estasi, premiato dagli Ubu) e dal Caligola, non si intimidisce di fronte alla fiaba pop e all’incastro di linguaggi, suoni e similitudini forse cristologiche, forse risorgimentali senza mai dimenticare che Collodi era uomo di teatro». Ama le sfide impossibili: e si prenota per Wallace e Döblin. «Il filo con Camus è la ricerca dell’assurdo. Come Caligola anche Pinocchio vuol rendere possibile l’impossibile, sappiamo che un burattino non diventerà mai bambino: la menzogna è nella creazione. La prima menzogna: bugia che riflette il desiderio di una paternità mancata. Ma nel figlio restano le caratteristiche dal padre, Geppetto è lo specchio di Collodi, un apprendista delle bugie dei grandi». Scena con pochi elementi, attori vestiti in una tuta bianca, meno Pinocchio in nero, con optional «maravigliosi», capelli e cappelli, maxi antenne del grillo una Fata che è tutto fuorché turchina «perché è una bambina morta da 100 anni».
Come sbarazzarsi degli ingombri del passato? «Tutti conosciamo Pinocchio anche senza averlo letto, ognuno ha in mente il suo, ma sarebbe meglio rileggerlo. Non è vero che gli si allunga il naso: accade una volta, le altre il naso si allunga perché ha fame, sente un’uggiolina nello stomaco». Scrivendo con Linda Dalisi e Federico Bellini, dramaturg reduci dalla guerra di Troia, Latella lavora sicuro che Pinocchio (bravissimo l’ex Oreste Christian La Rosa) ci appartenga in modo ancestrale biblico tanto che «come Gesù anch’egli risorge». Lo spettacolo, nato sulle misure di attori complici, rivelerà sensi profondamente attuali: d’un colpo ci riconosciamo. Sarà l’artificio del teatro a svelarci ancora una volta la coscienza del re? «Ancora. Pinocchio è lo straniero ma a livelli popolari, con l’affabulazione della lingua parlata». Latella è uomo che lancia il guanto: ha sfidato Arlecchino, Eduardo, Via col vento, la tragedia, ora cerca l’anima del burattino, leggendolo nell’estetica del doppio: mastro Ciliegia e Geppetto, Pinocchio e Lucignolo alter ego.
«Tutti mentono, tanto che ognuno si costruisce un Pinocchio su misura, atto di creazione non di spettacolarizzazione». Ogni tanto s’ascolterà Rossini, la Cenerentola, che Latella metterà in scena a Basilea. E alla fine Pinocchio parla di replicanti, robot, dell’industria della solitudine digitale, l’idea di Kubrick-Spielberg in A.I. «Non è detto che voglia diventar bambino, per me non lo diventa, tanto che vive in una natura morta, dove il Tempo è un personaggio, tra evidenti bagliori danteschi. Pinocchio è cosa, non essere vivente, sopravvive come gli oggetti sopravvivono all’uomo».
Ha letto Collodi a 10 anni: ora? «C’è stata una congiunzione astro-teatrale: il mio studio sul personaggio ha coinciso con la proposta del Piccolo, che per la prima volta mi produce: un segno e un sogno, uno dei grandi regali dei miei prossimi 50 anni insieme alla direzione della Biennale». Urge fare tabula rasa di tutti i burattini passati, lui che ha tanto amato il realismo di Comencini, non l’impanatura glamour Disney. «Salta all’occhio la quantità di animali parlanti: gatto e la volpe ma poi molti cani, colombi, merli, uccelli, delfini. E la balena, poetico mammifero che non fa paura, non l’ibrido pescecane».
Il finale? «Propongo una riflessione più che una consolazione. L’ultima pagina vera è l’impiccagione di Pinocchio: tragica e ironica, perché un pezzo di legno non s’impicca. A furor di piccoli lettori l’autore fu costretto a resuscitare il suo burattino, ma alcuni dicono che abbia poi abiurato. Tutto un sovrapporsi di menzogne: su queste lavoriamo e gli artifici del teatro ci accolgono su terreno fertile».
Tutti sono convinti di conoscerlo ma quanti sanno che il naso non gli si allunga solo per le bugie?
Non è detto che voglia diventar bambino, per me non lo diventa, tanto che vive in una natura morta