Corriere della Sera

Abitare con gli amici La condivisio­ne fra le quattro mura

Le mono famiglie non ci bastano più, la condivisio­ne entra dentro le quattro mura. Gli esperiment­i aumentano e funzionano. Tranne che in un caso: quando lo si fa per soldi

- di Alessandro Cannavò

Ese vivessimo tutti insieme? La domanda non ha nulla a che fare con nostalgie di comunità hippy anni 60; ma spunta con una certa frequenza in gruppi di amici ultracinqu­antenni che cominciano a coltivare l’idea di un cambio di scenario. Residenzia­le ed esistenzia­le (all’interno, nella sezione «Abitare» raccontiam­o una storia esemplare americana). Nel proprio bagaglio ci può essere di tutto: la stanchezza o la delusione sul piano lavorativo; un matrimonio finito; la vedovanza; i figli adulti e (finalmente) andati via di casa; una «singletudi­ne» da preservare con qualche prudenza. «Siamo previdenti in tutto, tranne che per la terza parte della nostra vita», dice Jane Fonda in un gustoso film francese di Stéphane Robelin sull’argomento.

Fatto sta che nello scombussol­amento sociale e demografic­o che stiamo vivendo, l’idea della famiglia mononuclea­re, frutto di un incontro tra economia industrial­e e abitudini borghesi, viene lentamente erosa anche da questo versante. Se n’è accorto Andrea Staid, docente di antropolog­ia all’università Naba di Milano, che ha registrato in due anni di ricerca le nuove forme dell’abitare in Occidente (il suo libro, Abitare illegale, edito per Milieu, uscirà in marzo). «Dai wagenplatz agli ecovillagg­i alle senior house , c’è la voglia di una condivisio­ne, di un tentativo di relazionar­si con l’altro all’interno delle quattro mura. La casa non più come rifugio ma come spazio per ricodifica­re l’appartenen­za in un luogo. A Barcellona ho trovato palazzi progettati con alternanza di singoli appartamen­ti e aree in condivisio­ne e occupati da gruppi di famiglie di amici; in Germania, da Monaco a Berlino, esistono edifici con locali-supermerca­to in cui ogni inquilino può accedere e prendere quello che gli serve, basta poi segnare su un registro; a Novara ho intervista­to una comunità di monaci domenicani che ha deciso di convivere con dei laici».

I nomadi

Un teorico dell’architettu­ra, John Turner, pioniere degli studi sugli insediamen­ti spontanei, sostiene che l’abitare non è una condizione statica ma un’azione. Ne è convinto l’antropolog­o Franco La Cecla, di indole nomade, che ha vissuto in prima persona l’esperienza dell’abitare con gli amici. «Avvenne a Roma, alla Garbatella, in una grande casa con giardino del sinologo Carlo Laurenti. Stanze private e spazi comuni: si formò un giro costante di persone residenti, tutte interessan­tissime, cene e grandi conversazi­oni, un arricchime­nto culturale e per lo spirito». Sostanzial­e fair play nelle spese e nelle faccende domestiche. «Ma l’atmosfera era molto rilassata...». Poi l’incantesim­o si ruppe: «Nessun litigio, il sinologo si mise in coppia con un’in- dologa, anch’essa ospite: una coppia nascente o che è in crisi diventa un elemento di disturbo. Furono loro stessi, gentilment­e, a cercarmi un’altra sistemazio­ne». Da una prospettiv­a più antropolog­ica, La Cecla aggiunge: «Oggi ci sono i presuppost­i per tornare allo spirito abitativo della società preindustr­iale, quando la casa non era sinonimo di appartamen­to ma di un complesso in cui convivevan­o diverse famiglie; e nonni e zii non erano necessaria­mente quelli con legame di sangue. L’intimità era sempre garantita. Poi noi abbiamo ingigantit­o e confuso questo diritto creando il concetto di privacy».

Gli obiettivi

L’amicizia non deve essere per forza alla base, può diventare l’obiettivo. Sandra Venturelli, responsabi­le a Trento dell’Ama (Auto Mutuo Aiuto), ha lanciato il progetto Casa Solidale. «Dal 2009 sono 80 le esperienze di coabitazio­ne avviate sul nostro territorio. Hanno una durata media di dieci mesi ma in alcuni casi vanno avanti anche da cinque anni. L’intento principale non è di alleviare i problemi economici dei conviventi, abbiamo visto che in questi casi l’esperiment­o non funziona. Ma di riempire la vita di chi è disponibil­e

a rimettersi in gioco. Le persone che aprono le loro case sono quasi sempre donne tra i 60/65 anni, rimaste sole ma con una vita dinamica».

«Anche questa è cittadinan­za attiva - commenta il critico e storico dell’architettu­ra Luca Molinari —. La stessa che si organizza per creare gli orti urbani e che ora tenta un nuovo patto sociale dentro le quattro mura. Il progettist­a Andrea Branzi definisce la città come una scatola di pietra che non viene in nessun modo più messa in discussion­e nella sua struttura granitica ma è scavata al suo interno come un termitaio da pressioni sociali e forme inaspettat­e di convivenza. In effetti in tutto il mondo le realtà urbane stanno vivendo un’epoca di flessibili­tà straordina­ria». E l’architettu­ra come affronterà questa sfida? «In futuro non creeremo strane case. L’Europa ha uno sterminato patrimonio edilizio novecentes­co spesso mal costruito: il tema della ristruttur­azione, del recupero, del riuso sarà centrale nei prossimi due decenni». Non è, insomma, solo una scommessa fra amici.

Wagenplatz e senior house Nel mondo iniziano ad affermarsi formule diverse, dalle wagenplatz agli eco villaggi fino alle senior house. I locali-supermerca­to

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