Abitare con gli amici La condivisione fra le quattro mura
Le mono famiglie non ci bastano più, la condivisione entra dentro le quattro mura. Gli esperimenti aumentano e funzionano. Tranne che in un caso: quando lo si fa per soldi
Ese vivessimo tutti insieme? La domanda non ha nulla a che fare con nostalgie di comunità hippy anni 60; ma spunta con una certa frequenza in gruppi di amici ultracinquantenni che cominciano a coltivare l’idea di un cambio di scenario. Residenziale ed esistenziale (all’interno, nella sezione «Abitare» raccontiamo una storia esemplare americana). Nel proprio bagaglio ci può essere di tutto: la stanchezza o la delusione sul piano lavorativo; un matrimonio finito; la vedovanza; i figli adulti e (finalmente) andati via di casa; una «singletudine» da preservare con qualche prudenza. «Siamo previdenti in tutto, tranne che per la terza parte della nostra vita», dice Jane Fonda in un gustoso film francese di Stéphane Robelin sull’argomento.
Fatto sta che nello scombussolamento sociale e demografico che stiamo vivendo, l’idea della famiglia mononucleare, frutto di un incontro tra economia industriale e abitudini borghesi, viene lentamente erosa anche da questo versante. Se n’è accorto Andrea Staid, docente di antropologia all’università Naba di Milano, che ha registrato in due anni di ricerca le nuove forme dell’abitare in Occidente (il suo libro, Abitare illegale, edito per Milieu, uscirà in marzo). «Dai wagenplatz agli ecovillaggi alle senior house , c’è la voglia di una condivisione, di un tentativo di relazionarsi con l’altro all’interno delle quattro mura. La casa non più come rifugio ma come spazio per ricodificare l’appartenenza in un luogo. A Barcellona ho trovato palazzi progettati con alternanza di singoli appartamenti e aree in condivisione e occupati da gruppi di famiglie di amici; in Germania, da Monaco a Berlino, esistono edifici con locali-supermercato in cui ogni inquilino può accedere e prendere quello che gli serve, basta poi segnare su un registro; a Novara ho intervistato una comunità di monaci domenicani che ha deciso di convivere con dei laici».
I nomadi
Un teorico dell’architettura, John Turner, pioniere degli studi sugli insediamenti spontanei, sostiene che l’abitare non è una condizione statica ma un’azione. Ne è convinto l’antropologo Franco La Cecla, di indole nomade, che ha vissuto in prima persona l’esperienza dell’abitare con gli amici. «Avvenne a Roma, alla Garbatella, in una grande casa con giardino del sinologo Carlo Laurenti. Stanze private e spazi comuni: si formò un giro costante di persone residenti, tutte interessantissime, cene e grandi conversazioni, un arricchimento culturale e per lo spirito». Sostanziale fair play nelle spese e nelle faccende domestiche. «Ma l’atmosfera era molto rilassata...». Poi l’incantesimo si ruppe: «Nessun litigio, il sinologo si mise in coppia con un’in- dologa, anch’essa ospite: una coppia nascente o che è in crisi diventa un elemento di disturbo. Furono loro stessi, gentilmente, a cercarmi un’altra sistemazione». Da una prospettiva più antropologica, La Cecla aggiunge: «Oggi ci sono i presupposti per tornare allo spirito abitativo della società preindustriale, quando la casa non era sinonimo di appartamento ma di un complesso in cui convivevano diverse famiglie; e nonni e zii non erano necessariamente quelli con legame di sangue. L’intimità era sempre garantita. Poi noi abbiamo ingigantito e confuso questo diritto creando il concetto di privacy».
Gli obiettivi
L’amicizia non deve essere per forza alla base, può diventare l’obiettivo. Sandra Venturelli, responsabile a Trento dell’Ama (Auto Mutuo Aiuto), ha lanciato il progetto Casa Solidale. «Dal 2009 sono 80 le esperienze di coabitazione avviate sul nostro territorio. Hanno una durata media di dieci mesi ma in alcuni casi vanno avanti anche da cinque anni. L’intento principale non è di alleviare i problemi economici dei conviventi, abbiamo visto che in questi casi l’esperimento non funziona. Ma di riempire la vita di chi è disponibile
a rimettersi in gioco. Le persone che aprono le loro case sono quasi sempre donne tra i 60/65 anni, rimaste sole ma con una vita dinamica».
«Anche questa è cittadinanza attiva - commenta il critico e storico dell’architettura Luca Molinari —. La stessa che si organizza per creare gli orti urbani e che ora tenta un nuovo patto sociale dentro le quattro mura. Il progettista Andrea Branzi definisce la città come una scatola di pietra che non viene in nessun modo più messa in discussione nella sua struttura granitica ma è scavata al suo interno come un termitaio da pressioni sociali e forme inaspettate di convivenza. In effetti in tutto il mondo le realtà urbane stanno vivendo un’epoca di flessibilità straordinaria». E l’architettura come affronterà questa sfida? «In futuro non creeremo strane case. L’Europa ha uno sterminato patrimonio edilizio novecentesco spesso mal costruito: il tema della ristrutturazione, del recupero, del riuso sarà centrale nei prossimi due decenni». Non è, insomma, solo una scommessa fra amici.
Wagenplatz e senior house Nel mondo iniziano ad affermarsi formule diverse, dalle wagenplatz agli eco villaggi fino alle senior house. I locali-supermercato