Il «we can» dei populisti
La spinta Usa. Berlusconi ai suoi: definiamoci movimento, non partito
Trump è lo «yes we can» di Grillo e Salvini. Ed è la sveglia per i partiti di sistema, consci che stavolta i populisti possono davvero vincere.
Il neopresidente americano è oggi l’icona di un fenomeno che stava già dilagando in Europa, e che oltre ad aver cambiato il linguaggio alla politica ora le sta imponendo persino l’agenda. Con crudo realismo — durante il vertice a Berlino — il ministro dello Sviluppo economico Calenda ha detto davanti alla Merkel che il 2017 «sarà l’anno in cui ogni singolo Paese dovrà impegnarsi a battere il populismo»: «Solo dopo potremo pensare di rilanciare l’Unione», vissuta come l’epicentro della crisi. Perciò può colpire — e colpisce — il modo in cui Padoan ha spiegato come «il problema in Europa si chiama Europa»: quasi a riconoscere le ragioni del populismo, che «va preso molto sul serio» e che «non può far giudicare cattivo chi ne viene attratto».
Ma a colpire ancor di più è che il ragionamento del titolare dell’Economia sulla «classe media disillusa», coincida con l’analisi di Berlusconi sulla «crisi della borghesia» che alimenta le spinte populiste. Anche il Cavaliere — «pur non considerandomi certo un populista» — non solo rifiuta «l’uso di questa parola brandita a mo’ di insulto», ma — al pari del ministro di centrosinistra — fa risalire «il problema delle democrazie europee» alle «classi dirigenti che stanno perdendo il contatto con il popolo», che «sono ferme a una visione vecchia», che «non hanno capito le nuove paure, le nuove povertà». Nell’Europa che ha per problema l’Europa si genera — secondo lo stesso leader forzista — quel sentimento che porta «al voto di protesta».
Le parole di Padoan e Berlusconi appaiono come altrettanti spunti per un documento programmatico di «larghe intese» tra forze di sistema, se non fosse che D’Alema — visto il trend — scommette invece sull’impossibilità di formare un simile governo dopo le elezioni, «perché non basteranno
i numeri». Già prima che i populisti possano arrivare a palazzo Chigi ne stanno ridefinizione le priorità. Ci sarà un motivo se Mattarella è arrivato a dire che l’Unione non può puntare l’indice contro l’Italia per il mancato rispetto delle regole di bilancio, mentre la stessa Unione si nasconde dietro un dito per il mancato rispetto delle regole sull’immigrazione con l’Italia.
E intanto da oggi c’è Trump, che di fatto diventa portavoce del fenomeno populista in Europa: d’altronde è diventato capo della più grande democrazia mondiale con le stesse parole d’ordine, cestinando il politicamente corretto di un establishment che teorizza terze vie e globalizzazione, che punta su new economy e servizi, mentre lui ha spostato il baricentro sul manufatto e la protezione del sistema interno. Perciò tutti sono in attesa di vederlo all’opera. Nei suoi colloqui riservati Prodi ha sottolineato come Trump stia dando «segnali che piacciono agli americani», e agli interlocutori
ha raccontato che la Cina — nonostante i recenti attriti — consideri il neoinquilino della Casa Bianca «una persona che conosce il mercato e va seguita con interesse».
Anche Berlusconi vuole vedere le sue prime mosse. Con Trump per ora fa mostra di tenersi a distanza: «Per storia e per cultura siamo diversi». Ma fino ad un certo punto, se è vero che all’ultima riunione forzista ha dato una direttiva al suo gruppo dirigente: «Non definiamoci mai un partito, perché la gente ha in odio i partiti. Parlate di movimento». «Noi siamo un movimento», ha detto Trump nel suo discorso di insediamento, che ha sancito la disfatta della vecchia guardia Repubblicana oltre che del Partito
Le convergenze
La strada delle larghe intese. Da Padoan e dal leader FI analisi uguali sulla classe media in crisi democratico. E per la Clinton faceva il tifo quasi tutto il governo Renzi. Tranne Delrio e la Madia, che puntavano su Sanders, il premier e l’allora ministro degli Esteri Gentiloni hanno dato appoggio pubblico all’«amica Hillary». Sarà un caso ma ieri in Consiglio dei ministri non si è parlato dell’evento a Washington.
Renzi, quando era a Palazzo Chigi, sosteneva che «The Donald» fosse «un pericolo» per l’Occidente e in particolare per l’Europa, «che è già debole» e che con la sua dottrina «si indebolirebbe ancor di più». Solo Alfano non prese e oggi da titolare della Farnesina è convinto «si debba fare un investimento di fiducia sulla nuova Amministrazione». Ma sono Grillo e Salvini a vedere in Trump il loro testimonial, e se la Consulta dovesse lasciare il ballottaggio alla legge elettorale i populisti potrebbero unirsi. E sarebbe più facile per loro gridare «yes we can».