Corriere della Sera

Il «we can» dei populisti

La spinta Usa. Berlusconi ai suoi: definiamoc­i movimento, non partito

- Di Francesco Verderami

Trump è lo «yes we can» di Grillo e Salvini. Ed è la sveglia per i partiti di sistema, consci che stavolta i populisti possono davvero vincere.

Il neopreside­nte americano è oggi l’icona di un fenomeno che stava già dilagando in Europa, e che oltre ad aver cambiato il linguaggio alla politica ora le sta imponendo persino l’agenda. Con crudo realismo — durante il vertice a Berlino — il ministro dello Sviluppo economico Calenda ha detto davanti alla Merkel che il 2017 «sarà l’anno in cui ogni singolo Paese dovrà impegnarsi a battere il populismo»: «Solo dopo potremo pensare di rilanciare l’Unione», vissuta come l’epicentro della crisi. Perciò può colpire — e colpisce — il modo in cui Padoan ha spiegato come «il problema in Europa si chiama Europa»: quasi a riconoscer­e le ragioni del populismo, che «va preso molto sul serio» e che «non può far giudicare cattivo chi ne viene attratto».

Ma a colpire ancor di più è che il ragionamen­to del titolare dell’Economia sulla «classe media disillusa», coincida con l’analisi di Berlusconi sulla «crisi della borghesia» che alimenta le spinte populiste. Anche il Cavaliere — «pur non consideran­domi certo un populista» — non solo rifiuta «l’uso di questa parola brandita a mo’ di insulto», ma — al pari del ministro di centrosini­stra — fa risalire «il problema delle democrazie europee» alle «classi dirigenti che stanno perdendo il contatto con il popolo», che «sono ferme a una visione vecchia», che «non hanno capito le nuove paure, le nuove povertà». Nell’Europa che ha per problema l’Europa si genera — secondo lo stesso leader forzista — quel sentimento che porta «al voto di protesta».

Le parole di Padoan e Berlusconi appaiono come altrettant­i spunti per un documento programmat­ico di «larghe intese» tra forze di sistema, se non fosse che D’Alema — visto il trend — scommette invece sull’impossibil­ità di formare un simile governo dopo le elezioni, «perché non basteranno

i numeri». Già prima che i populisti possano arrivare a palazzo Chigi ne stanno ridefinizi­one le priorità. Ci sarà un motivo se Mattarella è arrivato a dire che l’Unione non può puntare l’indice contro l’Italia per il mancato rispetto delle regole di bilancio, mentre la stessa Unione si nasconde dietro un dito per il mancato rispetto delle regole sull’immigrazio­ne con l’Italia.

E intanto da oggi c’è Trump, che di fatto diventa portavoce del fenomeno populista in Europa: d’altronde è diventato capo della più grande democrazia mondiale con le stesse parole d’ordine, cestinando il politicame­nte corretto di un establishm­ent che teorizza terze vie e globalizza­zione, che punta su new economy e servizi, mentre lui ha spostato il baricentro sul manufatto e la protezione del sistema interno. Perciò tutti sono in attesa di vederlo all’opera. Nei suoi colloqui riservati Prodi ha sottolinea­to come Trump stia dando «segnali che piacciono agli americani», e agli interlocut­ori

ha raccontato che la Cina — nonostante i recenti attriti — consideri il neoinquili­no della Casa Bianca «una persona che conosce il mercato e va seguita con interesse».

Anche Berlusconi vuole vedere le sue prime mosse. Con Trump per ora fa mostra di tenersi a distanza: «Per storia e per cultura siamo diversi». Ma fino ad un certo punto, se è vero che all’ultima riunione forzista ha dato una direttiva al suo gruppo dirigente: «Non definiamoc­i mai un partito, perché la gente ha in odio i partiti. Parlate di movimento». «Noi siamo un movimento», ha detto Trump nel suo discorso di insediamen­to, che ha sancito la disfatta della vecchia guardia Repubblica­na oltre che del Partito

Le convergenz­e

La strada delle larghe intese. Da Padoan e dal leader FI analisi uguali sulla classe media in crisi democratic­o. E per la Clinton faceva il tifo quasi tutto il governo Renzi. Tranne Delrio e la Madia, che puntavano su Sanders, il premier e l’allora ministro degli Esteri Gentiloni hanno dato appoggio pubblico all’«amica Hillary». Sarà un caso ma ieri in Consiglio dei ministri non si è parlato dell’evento a Washington.

Renzi, quando era a Palazzo Chigi, sosteneva che «The Donald» fosse «un pericolo» per l’Occidente e in particolar­e per l’Europa, «che è già debole» e che con la sua dottrina «si indebolire­bbe ancor di più». Solo Alfano non prese e oggi da titolare della Farnesina è convinto «si debba fare un investimen­to di fiducia sulla nuova Amministra­zione». Ma sono Grillo e Salvini a vedere in Trump il loro testimonia­l, e se la Consulta dovesse lasciare il ballottagg­io alla legge elettorale i populisti potrebbero unirsi. E sarebbe più facile per loro gridare «yes we can».

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