Corriere della Sera

L’orologio è arte. E c’è chi punta su inarrivabi­li pezzi unici

Il salone dell’alta orologeria di Ginevra: i marchi che perdono e quelli che guadagnano. Il ruolo dell’Italia

- 1 2 1 3 2 4 3 Maria Teresa Veneziani

o vorrei… non vorrei… ma se vuoi… La canzone di Battisti-Mogol la cantano tutti, al Salon Internatio­nal de la Haute Horlogerie che ieri ha chiuso a Ginevra. È la prima manifestaz­ione fieristica dell’anno e la più importante perché riguarda la nicchia del lusso dai 5.000 euro in su: oltre il 60% dei fatturati proviene da questo segmento.

C’è tanta Italia nell’orologeria svizzera. Ci sono grandi tecnici, grandi disegnator­i, c’è tanta manodopera qualificat­a, ci sono dirigenti d’ogni livello e c’è soprattutt­o una storica passione sfrenata che s’è trasformat­a in proverbio: «Se un orologio ha successo in Italia, e ogni capo rappresent­a un’epoca, quello della generazion­e social è senz’altro la felpa. Alla maglia, con o senza cappuccio, eletta divisa dai ragazzi, anche la moda più snob e costosa ha dovuto inchinarsi (quando ha capito che lo street style aveva più seguito dei singoli team creativi). Come dimostra anche la prima settimana della moda maschile targata 2017, non c’è designer o influencer che resista alla tentazione di crearne o sfoggiarne una. Portata in tutti modi, nella versione athletic che rilancia lo stile edonistico degli anni Novanta, o mischiata ai completi in lana dell’eleganza vecchio stile tornata in auge. «Apprezzata per la sua comodità (i bambini la amano da subito perché non pizzica) ma soprattutt­o per quel che rappresent­a: la libertà, in antitesi alla moda elitaria. Usata come mezzo di comunicazi­one dai politici (vedi Matteo Salvini) e dagli stessi designer che, approfitta­ndo del ritorno della logomania, la usano avrà successo anche nel resto del mondo». E questo si è trasformat­o in un ulteriore business: russi, cinesi e altri compratori lontani hanno scoperto che Italia vuole dire incontrare negozianti con una competenza unica. E questo fa sì che l’Italia continui a piazzarsi al quinto/sesto posto nella classifica dei maggiori importator­i d’orologi svizzeri. Non certo per i ricconi italiani — che tendono ancora a comprare all’estero — quanto per una solida base nel ceto medio e, appunto, i compratori provenient­i da ogni parte del mondo.

Il Salon Internatio­nal de la Haute Horlogerie si è presentato

JaegerLeCo­ultre Reverso Dual Time: 8.800 euro

Drive de Cartier Ultrapiatt­o Cassa in oro rosa (41x39 mm, 6,6 mm di spessore): 15.300 euro

Vacheron Constantin Celestia. Cassa in oro bianco, pezzo unico per autopromuo­versi. Da Alessandro Dell’Acqua con la sua N. 21 a Demna Gvasalia, fondatore della griffe «antimoda» Vetements che ha fatto scalpore con la maglia da spedizioni­ere «Dhl» e ora, in quanto direttore creativo di Balenciaga, la propone bianca (sulla camicia grigia in lana cotta) con la scritta Kering, l’uovo di colombo che in un attimo promuove il gruppo del lusso globale di cui la griffe fa parte, ma anche il nuovo spirito dei tempi: «avere cura».

«La felpa è un segno di appartenen­za, un indumento classico ordinario che diventa un pezzo da collezione», dice Francesco Ragazzi, designer di Moncler che per promuovere la sua prima sfilata milanese (ha lasciato Parigi) con il brand Palm Angels, ha inscenato una sorta di flash mob: «Ho lanciato l’appuntamen­to alle 7 e mezzo di sabato in via Montenapol­eone, davanti al negozio di Prada, per regalare 200 felpe, senza logo, con le fiamme sulle braccia e un triangolin­o con una palma sul petto — racconta —. In pochi minuti tre furgoni carichi sono stati svuotati».

La felpa è moderna perché è naturalmen­te genderless. «Per l’invero 2018 ho immaginato ragazzi degli I.B. College che vanno a lavorare a Wall Street e poi perdono il lavoro e si aggregano nelle gang antipotere», continua Ragazzi. Tradotto in moda: la felpa mixata con capi classici come il trench. E per questo piace anche a chi giovane non lo è più e la usa per rinfrescar­e il guardaroba. Fate la prova: quella grigia abbinata al pantalone marron e il mocassino, bianca per sdrammatiz­zare la gonna in pelle nera, rosa per rendere quotidiana la gonna plissé spalmata d’oro; o ancora, sul cashmere fliss per rendere chic un jeans a vita alta.

I brand del lusso ne hanno capito la forza. Il capo immancabil­e delle nuove collezioni maschili è la tuta in cashmere, perché, come ai tempi del dandy, «è più importante sentirsi comodi e bene con se stessi che voler apparire (Brunello Cucinelli, Kiton, Stefano Ricci, Lanificio Colombo, Doriani, Fedeli, Fioroni Cashmere). «La felpa, però, è una questione di atteggiame­nto (leggi stile) che funziona solo se è reale», sottolinea il designer. E a proposito di «vecchiovan­i», c’è un limite di età per indossarla? «Per me è un capo che puoi portare fino ai 40 anni, se ne hai 50 anni dovresti almeno evitate il cappuccio». Del resto Ragazzi ha solo 33 anni, può essere che poi cambi idea. quest’anno in versione meno trionfante. Tanti licenziame­nti (anni di euforia del mercato avevano causato plateali sovradimen­sionamenti) e un rimescolam­ento delle carte (a partire dal gruppo Richemont, di base a Ginevra, c’è un turnover di dirigenti), cui si aggiungono sospiri di sollievo finti («non so gli altri, ma noi siamo andati benissimo») e veri: il bilancio di Richemont aumenta il fatturato del 6%, fra settembre e dicembre 2016 (3,9 miliardi d’euro) grazie al successo delle marche «gioiellier­e» (Cartier, Van Cleef & Arpels e Giampiero Bodino hanno da sole portato 1,75 miliardi d’euro, in aumento del 9%), di

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