Corriere della Sera

Le 58 ore sotto un tetto di ghiaccio

Il racconto di chi è sopravviss­uto. Ancora 23 i dispersi, la rabbia dei familiari: non ci dicono nulla

- Di Marco Imarisio Arachi, Caccia, Iossa Piccolillo

Il racconto dei sopravviss­uti dell’hotel Rigopiano, in Abruzzo, intrappola­ti tra le macerie e la neve. Per 58 terribili ore sepolti sotto un tetto di ghiaccio. I due fidanzati: «Stavamo stretti vicini al camino dell’albergo, al buio, sperando che i soccorsi arrivasser­o fino a noi al più presto». Nell’hotel distrutto mercoledì dalla slavina seguita al nuovo sisma si continua a scavare. I dispersi sono ancora 23. E scatta la protesta dei familiari: ci tengono all’oscuro. Dopo cinque mesi di crolli e scosse continue, le popolazion­i terremotat­e sono allo stremo della fiducia. Momenti di tensione all’ospedale di Pescara e davanti alla Protezione civile a Rieti.

«Mi chiamo Giorgia, e sono viva». Alle undici di venerdì mattina la vita in scatola finisce con questa frase. «Ci chiedevano chi c’era. Cercavano di capire chi c’era sotto, e noi rispondeva­mo con i nostri nomi».

Adesso la ripete, ma sottovoce, con pudore. Nel letto accanto a lei dormono donne e bambini che non sanno ancora se potranno rivedere i genitori o i fidanzati che erano con loro. «Ho perso la cognizione del tempo, e non l’ho ancora ritrovata. Credo che sia durata due giorni, forse qualcosa di più». Sono quasi 58 ore. Giorgia Galassi, studentess­a universita­ria, le ha trascorse in un ambiente angusto e ovattato, insieme al fidanzato Vincenzo Forti, titolare di una pizzeria sul lungomare di Giulianova, entrambi convinti di essere in qualche modo sopravviss­uti a quello che loro chiamano «il terremoto devastante». Avevano deciso di partire perché non ne potevano più di quelle scosse. «Io soprattutt­o, mi ero convinta che sarebbe arrivata la botta definitiva. Avevo paura, insomma».

Alle 17.40 di venerdì sono nella hall del Rigopiano, seduti su un divano di vimini davanti al camino, bevendo una tazza di tè, in attesa che qualcuno gli dica come e quando partire. «Poi ci è crollato tutto addosso e non ci ho capito più niente». Quando si riprendono sono per terra, con qualche livido. La sala dell’albergo è diventata una cupola che contiene quattro gabbie, che comunicano tra loro dall’alto, ma sono isolate dall’esterno. «Eravamo completame­nte tagliati fuori e non sentivamo alcun suono. Le nostre voci rimbombava­no, e Vincenzo mi spiegava che era l’effetto della neve, una specie di cassa di risonanza. Avevo proprio questa sensazione di essere chiusa in una scatola, con la neve sopra che copriva ogni rumore. Non ho sentito niente per tutto quel tempo. Solo le voci che venivano da dentro». L’urto della valanga li ha spostati di almeno una decina di metri rispetto al posto dove si trovavano. Il grande camino è l’unico punto di riferiment­o di un panorama interno completame­nte stravolto. Il freddo non è così intenso.

All’improvviso lo spazio è diventato ristretto, da dividere per quattro. «Avevamo la sensazione che l’impatto ci avesse fatto sprofondar­e per terra». È la prima cosa che si dice con gli altri ospiti di quell’ambiente. «Ci siamo trovati vicino a una ragazza che cercava il fidanzato e un altro uomo di Roma, che era stato colpito sul braccio da una trave e aveva molto male. Ma soprattutt­o eravamo in comunicazi­one con una mamma che aveva con sé il bambino, e cercava a voce alta sua figlia». La ragazza si chiama Francesca, ed era anche lei nella sala del camino, adesso è finita in uno spazio angusto. Riesce a comunicare con gli altri, ma non a toccarli. «Era buio pesto» racconta dal letto della sala di rianimazio­ne accanto a quello di Giorgia. «Abbiamo deciso di fare luce con i telefonini, azionandol­i tutti insieme».

Le prime ore trascorron­o cercando di capire la collocazio­ne delle voci. Se loro, i quattro adulti, sono nella sala del camino, vuol dire la

mamma e il suo bambino, che poi sono Adriana Parete e il suo primogenit­o di otto anni, sono nella zona della cucina, mentre i bambini che gridano tutti insieme devono per forza essere vicini al biliardo. E tutti gli altri, che sono tanti, il resto degli ospiti che dovevano partire, sono rimasti nella sala garden, piena di piante, nell’ambiente che doveva essere il punto di ritrovo. Ma nell’oscurità nessuno vede niente. Francesca piange, chiede del suo fidanzato, che non vede più. Adriana si stringe al figlio. Giorgia la sente che gli fa coraggio, anzi si fanno coraggio a vicenda. «Ma tutti i bambini si sono comportati davvero bene, non li ho mai sentiti piangere, almeno credo».

A lei viene da piangere, più di una volta. Succede soprattutt­o al mattino del giorno dopo. «Quando mi sveglio all’improvviso, non vedo e non sento nessuno». Urlano, e non poco, per darsi la sveglia, per contarsi a vicenda. «Vincenzo, il mio fidanzato, invece non ha mai avuto dubbi. Ci ha tenuto su, tutti, non solo me. È stato la forza di tutto il gruppo. Ogni tanto lo sentivo che sussurrava qualche canzone, lo faceva per farci stare tranquilli». L’adrenalina chiude lo stomaco, la fame è solo un’ipotesi remota, Giorgia non mangerà neppure dopo il ricovero. «Zero cibo. L’unica cosa che abbiamo mangiato è stato il ghiaccio che avevamo intorno. Abbiamo potuto bere molto, e quella è stata la nostra forza». Adriana e il suo bambino cominciano a stare male, anche se la donna non vuole mostrarlo ai suoi compagni di disavventu­ra. Il piccolo ha paura dei rumori. L’intera struttura sembra scricchiol­are.

Francesca è quella che soffre di più. Non riesce neppure a stare in piedi per via di una trave che la separa dagli altri. Un paio di telefonini si scaricano. Giorgia si addormenta nelle braccia del fidanzato, ma non sa dire quanto dura il suo sonno. «Quando mi sono svegliata ero più convinta, mi sembrava che il peggio fosse passato. Vincenzo non ha mollato un secondo, e mi ha sorretto, anche se abbiamo passato la maggior parte del tempo seduti sul divano oppure sdraiati ai suoi piedi». Alle 11 di venerdì un rumore meccanico che non dura molto, e poi le voci. E la sua risposta. Sono Giorgia, e siamo vivi. «Ci spiegano tutto. Chi esce per primo, come ci verranno a prendere. Non ci mollano un attimo, si alternano a parlarci. A un certo punto glielo diciamo anche: guardate che ci fidiamo di voi, siamo tranquilli, possiamo aspettare. Fanno un lavoro incredibil­e, sono gente pazzesca».

Adriana e suo figlio escono per primi, dall’alto. Ormai il lieto fine è scritto, almeno per i due ragazzi di Giulianova, è solo questione di tempo. Li vengono a prendere da sotto, trascinand­oli fuori per i piedi. Mancano pochi minuti alle 4 di notte. Giorgia e Vincenzo si ritrovano di nuovo insieme agli altri, in una stanza del reparto di rianimazio­ne. Accanto a loro Francesca dorme e piange. Giampaolo Matrone, «il romano», è stato operato al braccio destro. Anche lui aspetta qualcuno, così come altri due bambini. La voce di Giorgia si fa sempre più bassa. La scatola si è finalmente aperta. Ma non tutti possono vedere la luce del giorno.

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 ?? (foto Soccorso alpino Piemonte) ?? Dentro l’hotel Un volontario del Soccorso alpino entra in una delle stanze del Rigopiano travolto dalla valanga
(foto Soccorso alpino Piemonte) Dentro l’hotel Un volontario del Soccorso alpino entra in una delle stanze del Rigopiano travolto dalla valanga

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