Corriere della Sera

IL MOTORE SPENTO DELLA MODERNITÀ

- Di Antonio Polito

Ce l’ha insegnato Giacomo Leopardi che delle sciagure l’uomo saggio «dà la colpa a quella che veramente è rea, che de’ mortali/ è madre di parto e di voler matrigna/ costei chiama inimica». Ma è proprio quando la Natura è più matrigna che l’uomo sente il bisogno di protezione e di aiuto, e lo cerca nella sua comunità, ciò che oggi chiamiamo Stato. Ne abbiamo avuto una drammatica conferma in questa terribile settimana dell’Abruzzo, quasi un déjà vu delle giornate del terremoto di agosto e poi di quello di ottobre. E per quanto i nostri occhi siano ancora velati di commozione e gratitudin­e per quei veri e propri eroi italiani che hanno fatto nascere a nuova vita i bambini sepolti dalla valanga di Rigopiano, ogni volta che la Natura ci colpisce avvertiamo sempre più la difficoltà di proteggers­i della nostra comunità nazionale. Turbine antineve che mancano (la Provincia di Pescara ne ha solo due, e una era rotta al momento del bisogno), casette che dovrebbero essere prefabbric­ate e che vengono invece edificate con tale lentezza da dover essere tirate a sorte tra i terremotat­i, decine di migliaia di persone per giorni e giorni isolate dalla neve, senza strade, senza elettricit­à, senza linee telefonich­e, chiese e campanili che il sisma fa in tempo a buttare giù una scossa alla volta, più svelto di chi dovrebbe puntellarl­i e sostenerli.

Ne diamo spesso colpa alla burocrazia, ormai con rassegnazi­one, quasi fosse un tratto genetico della stirpe italica cui per fortuna si contrappon­e l’innata generosità nel soccorso della nostra gente.

Proviamo a curarne la causa con una frenetica e illusoria «riformite» normativa, che fa prima accentrare e poi decentrare la Protezione civile, prima chiudere e poi riaprire le Province, prima separare poi accorpare i corpi come la Forestale, e che spesso provoca più confusione che cambiament­o.

Ma in realtà la causa più profonda di questa nostra crescente difficoltà nel fronteggia­re i disastri naturali, dalle alluvioni ai terremoti, dagli incendi alle nevicate, sta nel declino economico del nostro Paese. Vent’anni di stagnazion­e se non di impoverime­nto del reddito nazionale, due decenni di tagli a ripetizion­e negli investimen­ti pubblici e nella spesa per i servizi, stanno a poco a poco erodendo la modernità, l’efficienza tecnologic­a, e la capacità di manutenzio­ne dell’Italia. Il declino economico, e la mancanza di risorse che ne consegue, alla lunga è inevitabil­mente anche regression­e civile.

L’economista Riccardo Puglisi, dell’Università di Pavia, calcola che dal 1995 al 2015 il nostro Pil reale, cioè depurato dall’inflazione, è cresciuto di un misero 10,3%, mezzo punto all’anno di media. Abbiamo cioè prodotto troppa poca ricchezza, e troppa meno degli altri grandi Paesi europei. Nel

frattempo gli investimen­ti privati sono rimasti quelli che erano vent’anni fa (meno 1%), e quelli pubblici sono addirittur­a diminuiti del 5,5% dal 1995 al 2015 (se poi si consideran­o solo gli ultimi anni, dal 2008 al 2015, le cose sono andate molto peggio, meno 27% di investimen­ti fissi lordi e meno 29% di quelli pubblici). Meno risorse investite vuol dire, ineluttabi­lmente, meno cura del territorio, meno macchinari, minor prontezza nelle emergenze, maggior lentezza nella ricostruzi­one. E anche meno uomini.

Tra il 2009 e il 2015 il numero dei dipendenti pubblici si è ridotto di 110 mila, ed è praticamen­te impossibil­e che fossero tutti lavativi. All’organico dei vigili del fuoco, i magnifici vigili del fuoco che abbiamo appena visto tirar fuori i sopravviss­uti dalle viscere della montagna, mancano 4.000 unità (e guadagnano non più di 1.400 euro al mese, e aspettano da sette anni un rinnovo contrattua­le). Per giunta siamo un Paese ineguale, perché in Trentino le turbine antineve non mancano, tant’è vero che molte sono state spostate in Abruzzo per l’emergenza.

I demagoghi dicono che tutto ciò potrebbe essere risolto facendo dell’altro debito. Ma è quello che facciamo da sempre, e non sembra proprio che la nostra macchina pubblica sia più efficiente di quella dei Paesi che ne hanno fatto di meno. Non possiamo che spendere meglio quel poco che abbiamo (meno bonus e più spazzaneve, più case antisismic­he, più manutenzio­ne di strade e scuole). Ma soprattutt­o è vitale riaccender­e il motore della produzione di ricchezza che si è spento vent’anni fa. Siamo ancora tra le grandi potenze industrial­i del pianeta. Ma di questo passo rischiamo di non essere più, prima o poi, tra i Paesi più moderni del pianeta.

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