Piccole imprese: risposte possibili al low cost cinese
Aumentano gli store asiatici. Per il made in Italy ci sono delle opportunità
Sono due anni che le importazioni italiane dalla Cina calano a una media del 3-4% l’anno ma nel frattempo, essendo aumentate le aperture di store asiatici nei dintorni delle nostre città la percezione è comunque quella di un’invasione di prodotti low cost «made in Prc». Che fare dunque? Il peggio è passato o per le nostre Pmi permane il rischio di essere spazzate via? Per rispondere conviene dare uno sguardo ai numeri (vedere grafico) e soprattutto ai settori: è difficile infatti trovare un’unica soluzione. Gli analisti del CeSif, il Centro studi per l’impresa della Fondazione Italia-Cina, dividono importazioni ed esportazioni tra i due Paesi sostanzialmente in tre gruppi: a) quello in cui stiamo ancora vincendo; b) dove abbiamo perso; c) i settori nei quali la partita è ancora aperta. È chiaro comunque che stiamo parlando di prodotti che pure inseriti nella stessa merceologia hanno differente qualità e valore aggiunto — a nostro vantaggio —; inoltre mentre le importazioni cinesi sono prevalentemente rivolte ai consumatori, nel nostro export il peso del business to business è molto elevato.
Quando vince l’Italia
Nel primo girone (dove esportiamo più di quanto importiamo) troviamo gli apparecchi di misurazione/controllo/navigazione fino agli orologi. Seguono gioielleria, bigiotteria e la lavorazione delle pietre preziose. Sempre in questa lista compaiono pelle e pelletteria seguiti dai prodotti chimici (concimi e materiali greggi) e infine dalla pasta per la carta. Sono lavaglie vorazioni e prodotti nei quali gli italiani possiedono ancora un know-how tecnologico che i cinesi sognano. Pensiamo all’oreficeria di Arezzo e Vicenza, alla pelletteria di Scandicci: il valore aggiunto riflette una cultura e organizzazione industriale ancora vincente. Se vogliamo un’immagine che sintetizzi tutto ciò possiamo allargarci al design: noi vendiamo a Pechino e Shanghai le lampade Kartell e importiamo da loro lampadari da 4 euro. Poi ci sono autentiche sorprese come la pasta per produrre la carta che viene dal Centro Italia e interpreta esattamente le esigenze della domanda cinese. In virtù di storie come questa la Cina rappresenta per alcuni settori da sola anche il 15% dell’export e si tratta di posizioni che non dovrebbero cambiare a breve. «Italia e Cina importano dall’altro Paese esattamente gli stessi beni anche se di qualità/prezzo differenti — avverte Alberto Rossi del CeSif — e nel lungo periodo ciò rappresenta un pericolo. Che non esiste invece per la Germania che importa beni assai diversi dalle auto e dalla tecnologia che vende a Pechino».
Quando vince la Cina
Il secondo girone è quello dei settori dove abbiamo irrimediabilmente perso, come i prodotti in gomma e gli utensili/articoli da ferramenta e coltelleria. Importiamo un gran quantità di merci che poi troviamo nei grandi magazzini tipo Aumai, una catena di 37 store in tutta Italia a cui fa capo il grande centro di distribuzione di Agrate Brianza e che ha conquistato di recente anche piazzale Loreto a Milano. È vero che qualche Pmi, come la Sodifer di Rimini riesce ad esportare in Cina spugne, to- e coltelli, si tratta però di casi isolati — una sorta di made in Italy democratico — mentre per le piccole aziende che vogliono difendere le loro residue quote di mercato, forse a questo punto si propone la mossa del cavallo. Entrare come fornitori degli store tipo Aumai e avere una distribuzione capillare per vendere ancora i loro prodotti in Italia. A un prezzo più caro delle merci cinesi ma pur sempre competitivo.
Quando la partita è aperta
Il terzo girone è quello dove ce la giochiamo ancora. Rossi indica cinque settori come prodotti elettronici, tubi, motori e trasformatori elettrici, strumenti ottici e fotografici e infine prodotti minerali. Import e export qui sono in altalena, cambiano di anno in anno ma mentre in Italia i prodotti cinesi soddisfano una domanda di fascia bassa, in Cina noi vendiamo prodotti più sofisticati (quasi tutta componentistica per l’industria meccanica).
«Vuol dire che il nostro vantaggio competitivo non è del tutto eroso. Si tratta allora di replicare il modello dei distretti migliori, alzare il livello tecnologico e aggiornare il portafoglio prodotti. Se restiamo a guardare, nel giro di 5 anni perderemo anche in questo girone. I cinesi fermi non stanno».
In definitiva oggi ci lamentiamo dell’invasione di merci low cost che però in base ai numeri sta rallentando (esempio: nel tessile i volumi in due anni sono calati del 20%) ma se le nostre Pmi restano con le mani in mano nel giro di qualche anni si troveranno a fronteggiare una concorrenza che questa volta sarà di fascia più alta. Anche perché i dirigenti di Pechino sembrano molto meno interessati di ieri a rimanere unicamente la fabbrica low cost del mondo.