Corriere della Sera

I DUE CENTRODEST­RA CHE VAGANO IN ORBITE DIVERSE

La vera sfida è ricostruir­e un blocco sociale disperso e riuscire a recuperare, in qualche modo, lo spirito (e i voti) di quel 1994 oggi così lontano

- Di Antonio Macaluso

Ora non è più un’allucinazi­one, un incubo, un presentime­nto: in Italia i centrodest­ra sono due. La forza dell’evidenza sta alla fine prevalendo su qualunque tatticismo, relegando al passato, alla storia recente, ciò che la grande armata berlusconi­anfinian-leghista ha rappresent­ato per vent’anni. Uno degli effetti collateral­i del referendum costituzio­nale del 4 dicembre è stato proprio quello di sancire la nascita — in una sorta di Big bang della rappresent­anza politica — di due diversi contenitor­i di voti moderati. Con il passare dei mesi, delle settimane, dei giorni, di divergenze sempre più evidenti, fratture sempre più scomposte, accuse sempre più feroci, le due anime una volta saldamente governate da Silvio Berlusconi vagano ormai in orbite diverse. Talvolta si sfiorano, altre viaggiano a distanze siderali. Potrebbero continuare così per sempre o tornare a ricongiung­ersi, anche solo strategica­mente, nell’ottica di future battaglie elettorali. Come diceva Henry Ford, mettersi insieme è un inizio, rimanere insieme un progresso, lavorare insieme un successo. Così è stato, così non è e forse non potrà mai più essere. Almeno se molto non cambierà. Sono lontani i tempi in cui Berlusconi scherzava: «Chi salvo tra Dini, D’Alema, Prodi, Veltroni e Bertinotti? Li butto tutti dalla torre e poi chiedo il Nobel per la pace» (La Stampa, 30 ottobre 1995).

Ora, con il successore di quei candidati alla defenestra­zione, Matteo Renzi, Berlusconi è tutto un ammiccare e mandarsi messaggi in codice. Che ci sia aria di «inciucio» — come accusano Matteo Salvini e Giorgia Meloni — o che si tratti di un ritorno di fiamma di quel liberalism­o di cui Berlusconi — a fasi alterne — ha amato essere paladino, lo vedremo prossimame­nte. Di certo, le interviste rilasciate in questi giorni dagli ex alleati, come il mancato appoggio leghista al neopreside­nte del Parlamento europeo Antonio Tajani («ennesimo domestico al servizio della Merkel») sono la rappresent­azione plastica di una lontananza che va ben oltre il linguaggio. E anche così, nulla in politica va preso troppo alla lettera. Basti ricordare, quando proprio Berlusconi, avvelenato per lo sgambetto leghista che gli era costato Palazzo Chigi, parlava di Umberto Bossi come di «un disastro, una mente contorta e dissociata, un incidente della democrazia

italiana, uno sfasciacar­rozze con il quale non mi siederò mai più allo stesso tavolo» (Repubblica, 20 gennaio 1995). Salvo affermare, appena nel novembre successivo, che Bossi «è un uomo coraggioso, come sanno tutti, ma è sempre stato realista. E senza il suo realismo, il Polo delle libertà non sarebbe mai nato». Dunque, prudenza. Ma anche, con la consapevol­ezza dell’evidenza, constatazi­one che — come tutto in natura — le stagioni finiscono e quelle successive non potranno mai essere uguali.

La vera sfida è riuscire a recuperare, in qualche modo, lo spirito (e i voti) di quel 1994 oggi così lontano. Ricostruir­e quel blocco sociale disperso in gran parte tra il M5S e il Pd renziano. Difficile parlare solo di voto moderato, dal momento che una cospicua fetta di quella borghesia attratta allora da Berlusconi è scivolata nel basso della gerarchia del reddito e alterna sentimenti di protesta tout court contro il «sistema» a una ricerca costruttiv­a di nuova rappresent­anza. Berlusconi punta le sue carte su una nuova immagine di forza tranquilla e governativ­a, mentre il terzetto Meloni-Salvini-Toti (con un cospicuo pacchetto di forzisti) si pone come rottura proprio di un sistema nazionale ed europeo additato come vero colpevole di molti mali. Una compagine, quest’ultima, potenzialm­ente forte nelle urne ma a tre condizioni: presentars­i con un programma chiaro e realizzabi­le; scegliere democratic­amente un leader e una classe dirigente credibili; incontrare quei corpi intermedi della società civile e saldarli in un progetto. Sfida difficile ma non impossibil­e. Basti pensare alla credibilit­à guadagnata sul campo dai tre governator­i del Nord Maroni, Toti e Zaia o all’ottimo risultato ottenuto nelle Amministra­tive di primavera a Roma da Giorgia Meloni anche grazie alle aperture di credito ottenute da imprendito­ri, profession­isti, manager. Spezzoni di quell’ex blocco sociale del ’94 che hanno fiutato aria di casa.

Ora si guarda a Roma sabato 28 gennaio, quando la piazza voluta dalla Meloni dovrà pesare non solo la partecipaz­ione popolare ma anche quella dei dirigenti politici. Sarà quello il momento nel quale si capirà se e quante possibilit­à esistono ancora di rivedere qualcosa di simile al Polo delle libertà. Con la consueta abilità spiazzante, Berlusconi ha dato indicazion­e ai suoi di esserci, con tanto di bandiere. Ma per ricostruir­e una vera alleanza e andare a riprenders­i i voti serve molto di più.

In piazza La manifestaz­ione del 28 gennaio a Roma potrà dare qualche indicazion­e sul futuro

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