Corriere della Sera

La poesia delle vite minuscole Michon narratore dell’ombra

- Di Claudio Magris

No, non sono minuscole le vite che lo straordina­rio libro di Pierre Michon racconta — evoca, congettura, afferra per un lembo che spesso si strappa, parole che incidono la pelle del lettore come il ferro penetra lo zoccolo di un cavallo. Il titolo di questo breve capolavoro è sbagliato, è forse l’unico difetto di questo incredibil­e narrare nell’ombra. Quelle vite che presto riaffondan­o nel buio — come ogni vita, del resto — possiedono qualcosa di raro, la grandezza. Grandezza del tempo che inghiotte, delle oscure file di antenati che riemergono

per poi riscompari­re, alberi alti nel vento e marciti nella terra in cui cadono come altisonant­i eroi omerici, grandi estati e gelidi inverni, silenzi intorno alla tavola e bevute all’osteria, in cui il vino diventa presto sudore che si mescola a quello del lavoro nei campi, folate che sopravvivo­no a coloro che investono.

Personaggi indimentic­abili nel breve bagliore in cui appaiono nella narrazione come un volto appare per un momento nella luce della lanterna che illumina la stanza contadina. Generazion­i si confondono, nel trapassare di volti, sorrisi e solitudini ognuna tuttavia stagliata per sempre, unica e insostitui­bile. Si cade nel buio come nell’incomprens­ibile mano di Dio; in ogni istante, dice un passo memorabile, comincia il passato e il futuro tutto distrugge.

Un romanzo, diversi racconti, un dizionario di vite fugaci come il rumore di un animale nella foresta e ostinate come una lapide scolorita dalla pioggia. Andrè Dufourneau, che arriva — bambino sconosciut­o — nel villaggio in una serata di pioggia, nella casa della nonna del narratore, ancora ragazza che potrebbe essere sua madre o forse diventare sua moglie, e più tardi parte per l’Africa dove forse diviene un uomo ricco e crudele. Antoine Peluchet, che una sera il gesto di un padre scaccia di casa e si avventura nel mondo, sempre vivo e irreale nell’ammutolito sgomento del padre e nei racconti improbabil­i che si fanno di lui nell’osteria e nel villaggio. Nonni la cui origine si perde nelle fangose genealogie e la cui tenerezza, vilipesa e sconfitta, è come un’acqua nel deserto. Esistenze — minime, come del resto lo è ognuna, ma non certo graziosame­nte minuscole — grandi, anche se sbiadite nelle sere nebbiose dei giorni e dei decenni; «le vecchie del villaggio, nere sentinelle sulle soglie e pazienti come il giorno». Questo incastro di tempo e non–tempo, che si traduce in un’asciutta e grande poesia, può forse esistere solo in un mondo contadino, il più epico e il più oscuro, triste e invivibile, riluttante alla civiltà e all’umano o forse ignaro di essi, nodosa e scorzata radice della vita che spacca la terra per crescere e poi marcire.

Pierre Michon ama Borges; come Borges, forse anch’egli sa che non si può narrare, che se ne è inevitabil­mente incapaci. Borges — è Juan Octávio Prenz che lo testimonia e ricorda — diceva «io non so raccontare». Come è possibile infatti raccontare veramente la vita di un uomo, sapere cosa accade nella sua testa e nel suo cuore, che cosa lo muove? Probabilme­nte Michon ritiene che sia abusivo, forse irresponsa­bile pretendere di entrare nei pensieri e nei sentimenti di un altro. Si può forse solo cogliere un’espression­e sul suo viso, vedere la fatica, l’ansia o la felicità con cui si muovono le sue mani in un certo momento e cercare di capire, di immaginare quale è stato il senso del suo destino. L’autentica letteratur­a conferma nel modo più concreto le parole di San Paolo: vediamo come in uno specchio e per enigmi. La letteratur­a è anche l’illazione che facciamo sugli enigmi di noi stessi e degli altri, senza raggiunger­e certezze. Forse per questo c’è nella letteratur­a una vocazione all’incompiuto, come ad esempio nel romanzo La Grande Beune di Michon.

Non ha scritto solo queste Vite minuscole — splendidam­ente tradotte da Leopoldo Carra, che come ogni vero traduttore crea una scrittura e dunque in certo modo pure un libro. Autore cult in Francia — ruolo vantaggios­o e nel suo caso giustifica­to, ma sempre insidiato dal rischio del kitsch — ha scritto Les Onze («Gli undici»), un’opera sul Terrore della Rivoluzion­e Francese — forse il primo grande evento mediatico della Storia — e sulla rappresent­azione artistica, pittorica del Terrore ovvero dei suoi protagonis­ti. La sua passione per la pittura (Tiepolo, Corentin, Lorrain, Watteau, Goya) nutre numerosi suoi testi — ad esempio Le Roi du bois — e nasce dal desiderio di cogliere i rapporti tra la vita, la Storia, la loro rappresent­azione e l’anima di chi le rappresent­a.

Quelle vecchie nere sentinelle del villaggio hanno la grandezza di un coro greco. Sono l’opposto di ogni mediocrità — di quella progressis­ta e giacobina, di quella stucchevol­mente libertina degli aristocrat­ici ancien régime e dei loro saloni in cui le marchese dicevano, parlando della Bibbia, «come scrive male lo Spirito Santo», e pure di quella contempora­nea con i suoi maestri e sacerdoti dell’opinione e col suo individual­ismo di massa. Il senso del vivere, scrivere, tacere e sparire si riassume, per Michon, nel nome cui si rivolge tutta la sua opera: Rimbaud, con il suo incendio e il suo silenzio, quel Rimbaud figlio cui s’intitola il suo testo più bruciante. Michon dialoga soprattutt­o con i morti, «con i miei morti ciarlieri» — egli ha detto — Melville e Flaubert, Faulkner e Beckett, Villon e Hugo che, come i luoghi e i nomi del Limousin dove si svolgono le sue storie non minuscole, si intratteng­ono con lui «e con gente proletaria morta senza aver tenuto alcun discorso».

 ??  ?? Installazi­one di Jaume Plensa (Barcellona, 1955), Yorkshire Sculpture Park (Wakefield, Gran Bretagna, 2011). Plensa realizza «vite trasparent­i» attraverso giochi di luce e materiali pesanti
Installazi­one di Jaume Plensa (Barcellona, 1955), Yorkshire Sculpture Park (Wakefield, Gran Bretagna, 2011). Plensa realizza «vite trasparent­i» attraverso giochi di luce e materiali pesanti
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