La poesia delle vite minuscole Michon narratore dell’ombra
No, non sono minuscole le vite che lo straordinario libro di Pierre Michon racconta — evoca, congettura, afferra per un lembo che spesso si strappa, parole che incidono la pelle del lettore come il ferro penetra lo zoccolo di un cavallo. Il titolo di questo breve capolavoro è sbagliato, è forse l’unico difetto di questo incredibile narrare nell’ombra. Quelle vite che presto riaffondano nel buio — come ogni vita, del resto — possiedono qualcosa di raro, la grandezza. Grandezza del tempo che inghiotte, delle oscure file di antenati che riemergono
per poi riscomparire, alberi alti nel vento e marciti nella terra in cui cadono come altisonanti eroi omerici, grandi estati e gelidi inverni, silenzi intorno alla tavola e bevute all’osteria, in cui il vino diventa presto sudore che si mescola a quello del lavoro nei campi, folate che sopravvivono a coloro che investono.
Personaggi indimenticabili nel breve bagliore in cui appaiono nella narrazione come un volto appare per un momento nella luce della lanterna che illumina la stanza contadina. Generazioni si confondono, nel trapassare di volti, sorrisi e solitudini ognuna tuttavia stagliata per sempre, unica e insostituibile. Si cade nel buio come nell’incomprensibile mano di Dio; in ogni istante, dice un passo memorabile, comincia il passato e il futuro tutto distrugge.
Un romanzo, diversi racconti, un dizionario di vite fugaci come il rumore di un animale nella foresta e ostinate come una lapide scolorita dalla pioggia. Andrè Dufourneau, che arriva — bambino sconosciuto — nel villaggio in una serata di pioggia, nella casa della nonna del narratore, ancora ragazza che potrebbe essere sua madre o forse diventare sua moglie, e più tardi parte per l’Africa dove forse diviene un uomo ricco e crudele. Antoine Peluchet, che una sera il gesto di un padre scaccia di casa e si avventura nel mondo, sempre vivo e irreale nell’ammutolito sgomento del padre e nei racconti improbabili che si fanno di lui nell’osteria e nel villaggio. Nonni la cui origine si perde nelle fangose genealogie e la cui tenerezza, vilipesa e sconfitta, è come un’acqua nel deserto. Esistenze — minime, come del resto lo è ognuna, ma non certo graziosamente minuscole — grandi, anche se sbiadite nelle sere nebbiose dei giorni e dei decenni; «le vecchie del villaggio, nere sentinelle sulle soglie e pazienti come il giorno». Questo incastro di tempo e non–tempo, che si traduce in un’asciutta e grande poesia, può forse esistere solo in un mondo contadino, il più epico e il più oscuro, triste e invivibile, riluttante alla civiltà e all’umano o forse ignaro di essi, nodosa e scorzata radice della vita che spacca la terra per crescere e poi marcire.
Pierre Michon ama Borges; come Borges, forse anch’egli sa che non si può narrare, che se ne è inevitabilmente incapaci. Borges — è Juan Octávio Prenz che lo testimonia e ricorda — diceva «io non so raccontare». Come è possibile infatti raccontare veramente la vita di un uomo, sapere cosa accade nella sua testa e nel suo cuore, che cosa lo muove? Probabilmente Michon ritiene che sia abusivo, forse irresponsabile pretendere di entrare nei pensieri e nei sentimenti di un altro. Si può forse solo cogliere un’espressione sul suo viso, vedere la fatica, l’ansia o la felicità con cui si muovono le sue mani in un certo momento e cercare di capire, di immaginare quale è stato il senso del suo destino. L’autentica letteratura conferma nel modo più concreto le parole di San Paolo: vediamo come in uno specchio e per enigmi. La letteratura è anche l’illazione che facciamo sugli enigmi di noi stessi e degli altri, senza raggiungere certezze. Forse per questo c’è nella letteratura una vocazione all’incompiuto, come ad esempio nel romanzo La Grande Beune di Michon.
Non ha scritto solo queste Vite minuscole — splendidamente tradotte da Leopoldo Carra, che come ogni vero traduttore crea una scrittura e dunque in certo modo pure un libro. Autore cult in Francia — ruolo vantaggioso e nel suo caso giustificato, ma sempre insidiato dal rischio del kitsch — ha scritto Les Onze («Gli undici»), un’opera sul Terrore della Rivoluzione Francese — forse il primo grande evento mediatico della Storia — e sulla rappresentazione artistica, pittorica del Terrore ovvero dei suoi protagonisti. La sua passione per la pittura (Tiepolo, Corentin, Lorrain, Watteau, Goya) nutre numerosi suoi testi — ad esempio Le Roi du bois — e nasce dal desiderio di cogliere i rapporti tra la vita, la Storia, la loro rappresentazione e l’anima di chi le rappresenta.
Quelle vecchie nere sentinelle del villaggio hanno la grandezza di un coro greco. Sono l’opposto di ogni mediocrità — di quella progressista e giacobina, di quella stucchevolmente libertina degli aristocratici ancien régime e dei loro saloni in cui le marchese dicevano, parlando della Bibbia, «come scrive male lo Spirito Santo», e pure di quella contemporanea con i suoi maestri e sacerdoti dell’opinione e col suo individualismo di massa. Il senso del vivere, scrivere, tacere e sparire si riassume, per Michon, nel nome cui si rivolge tutta la sua opera: Rimbaud, con il suo incendio e il suo silenzio, quel Rimbaud figlio cui s’intitola il suo testo più bruciante. Michon dialoga soprattutto con i morti, «con i miei morti ciarlieri» — egli ha detto — Melville e Flaubert, Faulkner e Beckett, Villon e Hugo che, come i luoghi e i nomi del Limousin dove si svolgono le sue storie non minuscole, si intrattengono con lui «e con gente proletaria morta senza aver tenuto alcun discorso».