Corriere della Sera

Un «patto» più chiaro sugli esami e sulle cure

Il consenso informato è ridotto troppo spesso a una pura formalità burocratic­a, che viene vissuta dai pazienti come un mezzo dei profession­isti per liberarsi dalle responsabi­lità. È invece il riconoscim­ento del ruolo del malato nel percorso terapeutic­o

- Cristina D’Amico

Secondo il Rapporto PIT Salute 2016 del Tribunale dei diritti del Malato- Cittadinan­zattiva, infatti, delle oltre 21 mila segnalazio­ni degli assistiti per problemi nei rapporti con la Sanità giunte nel 2015, l’11,4% ha riguardato l’accesso alle informazio­ni e di questi casi il 22% proprio il diritto al consenso informato (oltre il 4% in più rispetto all’anno precedente). Le criticità denunciate: brevità del colloquio avuto il medico; modulo per il consenso presentato solo pochi minuti prima del trattament­o; terminolog­ia troppo tecnica e quindi di fatto incomprens­ibile. E, ancora oggi, per tanti la firma apposta rappresent­a solo uno “scarico di responsabi­lità” in favore del medico (equivoco duro a morire).

«Premetto — dice Mori — che considero il consenso informato importante quanto il diritto di voto: come, attraverso il voto, si acquisisce la partecipaz­ione alla vita pubblica, attraverso il consenso informato, si acquisisce la partecipaz­ione alla gestione della propria esistenza biologica. Ma sul consenso vedo oggi incertezze e abusi. Incertezze, nei molti che ancora dicono al medico “faccia lei”: il che equivale a chiedere che cosa si debba votare, o a non votare. Abusi, su fasce deboli della popolazion­e. Penso, ad esempio, a chi è prossimo alla maggiore età, ma per la legge ancora un “minore” sotto la potestà dei genitori: il diritto all’autodeterm­inazione di questi ragazzi dipende dalla sensibilit­à e dall’iniziativa dei singoli operatori sanitari, che possono trovarsi davanti grandi ostacoli. Penso agli anziani, spesso messi automatica­mente sotto la tutela dei familiari, come se l’età avanzata fosse sinonimo d’incapacità. E chiedo, inoltre: quante diagnosi di Alzheimer alle prime insorgenze vengono comunicate al paziente perché possa prendere le opportune misure in una fase in cui è ancora capace di decidere e disporre? E quanti medici si impegnano in un reale dialogo con chi soffre di disturbi psichici?»

«Ma i problemi non ci sono solo in queste situazioni particolar­i — prosegue Mori —. Incontro medici che si sentono “tiranneggi­ati” se i malati dissentono dalle loro proposte di cura, e vedo affacciars­i nuovi interrogat­ivi, per esempio di fronte a pazienti di altre culture». «Oggi nel Servizio sanitario — aggiunge Aceti — si guarda molto, in parte giustament­e, all’efficienza, con il rischio però di trasformar­e la Sanità in un “prestazion­ificio”. All’insegna della produttivi­tà, il tempo della relazione medicopazi­ente si sta inesorabil­mente riducendo. Del resto, in un sistema in cui tutto ha valore economico tranne la “comunicazi­one”, questa non può che diventare residuale. E allora a saltare è la “sostanza” del consenso, spesso ridotto ad atto burocratic­o, svolto in fretta, con molta attenzione alla forma e poca al significat­o; tanti continuano a considerar­lo uno strumento per sollevare i medici da responsabi­lità legali e non uno strumento per la condivisio­ne del percorso di cura. Non c’è da stupirsi: nella medicina “amministra­ta dall’alto”, meno sono i passaggi di confronto, più facilmente si raggiunge l’obiettivo». E se il consenso informato, viste le difficoltà, avesse bisogno di essere riformato?

Lo suggerisce Fabrizio Cafaggi, ordinario di Diritto privato all’Università di Trento, che ne L’idea è di introdurre una gradualità del consenso in base a una preliminar­e

in relazione alla salute

ha parlato in un convegno organizzat­o da AGePI, Associazio­ne Gestori Sociosanit­ari e cure Post Intensive, a Milano (si veda articolo sotto). La complessit­à del consenso — ha proposto — potrebbe essere graduata, procedendo da un consenso semplice per prestazion­i «ad alto livello di incertezza sui risultati e basso livello di rischio per il paziente», per giungere a decisioni sempre più condivise mano a mano che «diminuisce l’incertezza della prestazion­e ma aumenta il rischio per l’assistito».

Si potrebbe perfino — ha ipotizzato Cafaggi — modulare il consenso in base a una preliminar­e profilazio­ne del rischio della persona in relazione alla salute, un po’ come si fa già in materia di scelte finanziari­e. Un’idea suggestiva, che non mancherà di far discutere.

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