Un «patto» più chiaro sugli esami e sulle cure
Il consenso informato è ridotto troppo spesso a una pura formalità burocratica, che viene vissuta dai pazienti come un mezzo dei professionisti per liberarsi dalle responsabilità. È invece il riconoscimento del ruolo del malato nel percorso terapeutico
Secondo il Rapporto PIT Salute 2016 del Tribunale dei diritti del Malato- Cittadinanzattiva, infatti, delle oltre 21 mila segnalazioni degli assistiti per problemi nei rapporti con la Sanità giunte nel 2015, l’11,4% ha riguardato l’accesso alle informazioni e di questi casi il 22% proprio il diritto al consenso informato (oltre il 4% in più rispetto all’anno precedente). Le criticità denunciate: brevità del colloquio avuto il medico; modulo per il consenso presentato solo pochi minuti prima del trattamento; terminologia troppo tecnica e quindi di fatto incomprensibile. E, ancora oggi, per tanti la firma apposta rappresenta solo uno “scarico di responsabilità” in favore del medico (equivoco duro a morire).
«Premetto — dice Mori — che considero il consenso informato importante quanto il diritto di voto: come, attraverso il voto, si acquisisce la partecipazione alla vita pubblica, attraverso il consenso informato, si acquisisce la partecipazione alla gestione della propria esistenza biologica. Ma sul consenso vedo oggi incertezze e abusi. Incertezze, nei molti che ancora dicono al medico “faccia lei”: il che equivale a chiedere che cosa si debba votare, o a non votare. Abusi, su fasce deboli della popolazione. Penso, ad esempio, a chi è prossimo alla maggiore età, ma per la legge ancora un “minore” sotto la potestà dei genitori: il diritto all’autodeterminazione di questi ragazzi dipende dalla sensibilità e dall’iniziativa dei singoli operatori sanitari, che possono trovarsi davanti grandi ostacoli. Penso agli anziani, spesso messi automaticamente sotto la tutela dei familiari, come se l’età avanzata fosse sinonimo d’incapacità. E chiedo, inoltre: quante diagnosi di Alzheimer alle prime insorgenze vengono comunicate al paziente perché possa prendere le opportune misure in una fase in cui è ancora capace di decidere e disporre? E quanti medici si impegnano in un reale dialogo con chi soffre di disturbi psichici?»
«Ma i problemi non ci sono solo in queste situazioni particolari — prosegue Mori —. Incontro medici che si sentono “tiranneggiati” se i malati dissentono dalle loro proposte di cura, e vedo affacciarsi nuovi interrogativi, per esempio di fronte a pazienti di altre culture». «Oggi nel Servizio sanitario — aggiunge Aceti — si guarda molto, in parte giustamente, all’efficienza, con il rischio però di trasformare la Sanità in un “prestazionificio”. All’insegna della produttività, il tempo della relazione medicopaziente si sta inesorabilmente riducendo. Del resto, in un sistema in cui tutto ha valore economico tranne la “comunicazione”, questa non può che diventare residuale. E allora a saltare è la “sostanza” del consenso, spesso ridotto ad atto burocratico, svolto in fretta, con molta attenzione alla forma e poca al significato; tanti continuano a considerarlo uno strumento per sollevare i medici da responsabilità legali e non uno strumento per la condivisione del percorso di cura. Non c’è da stupirsi: nella medicina “amministrata dall’alto”, meno sono i passaggi di confronto, più facilmente si raggiunge l’obiettivo». E se il consenso informato, viste le difficoltà, avesse bisogno di essere riformato?
Lo suggerisce Fabrizio Cafaggi, ordinario di Diritto privato all’Università di Trento, che ne L’idea è di introdurre una gradualità del consenso in base a una preliminare
in relazione alla salute
ha parlato in un convegno organizzato da AGePI, Associazione Gestori Sociosanitari e cure Post Intensive, a Milano (si veda articolo sotto). La complessità del consenso — ha proposto — potrebbe essere graduata, procedendo da un consenso semplice per prestazioni «ad alto livello di incertezza sui risultati e basso livello di rischio per il paziente», per giungere a decisioni sempre più condivise mano a mano che «diminuisce l’incertezza della prestazione ma aumenta il rischio per l’assistito».
Si potrebbe perfino — ha ipotizzato Cafaggi — modulare il consenso in base a una preliminare profilazione del rischio della persona in relazione alla salute, un po’ come si fa già in materia di scelte finanziarie. Un’idea suggestiva, che non mancherà di far discutere.