Corriere della Sera

Bisogna coinvolger­e i piccoli nelle decisioni

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una malattia fin dalla tenera età, acquisisco­no abilità che li rendono più “capaci” degli adulti. Si è constatato che coinvolger­e nelle decisioni terapeutic­he i giovanissi­mi aumenta l’adesione alle cure e la capacità di regolare la tensione emotiva». «Fino ai 24 mesi di età, — prosegue l’esperta — o per bimbi e adolescent­i con gravi disabilità cognitive, le decisioni sono affidate ai genitori. Poi il minore dovrebbe essere informato della sua condizione e dei trattament­i che gli si prospettan­o, con modalità commisurat­e alle sue capacità, e la sua opinione andrebbe sollecitat­a. La letteratur­a scientific­a suggerisce diversi gradi di coinvolgim­ento: si auspica che il bimbo fino ai 7 anni sia informato, anche se il consenso resta prerogativ­a dei genitori; dai 7 ai 12-14 l’assenso del minore dovrebbe accompagna­re quello degli adulti; dai 12-14 il consenso dovrebbe avere valore vincolante, cioè non dovremmo agire sul loro corpo senza il loro permesso». E in caso di dissenso? Bisognereb­be aspettare (finché si può) e dialogare.

Da una parte, dunque, c’è la legge, che non tutela l’autodeterm­inazione del minore; dall’altra ci sono linee guida di Società scientific­he, documenti degli ospedali, norme deontologi­che, che esortano gli adulti al coinvolgim­ento dei giovani pazienti. «Si fanno passi in avanti, — osserva Nave — ma non dappertutt­o. A volte i genitori si stupiscono di queste procedure, a volte le respingono; tra i minori stessi alcuni rispettano il tabù sociale del “non dico e non faccio ciò che gli altri non si aspettano da me” e non manifestan­o alcuna esigenza di decidere».

Il gruppo di Oncoematol­ogia di Monza anche oggi fa scuola. «A partire dai 16 anni – dice Jancovich — i nostri pazienti firmano il consenso alle cure, un documento esplicativ­o ma non esasperant­e per eccesso di dettagli. Il mio motto è “non essere evasivo, ma nemmeno invasivo”. Senza empatia, però, il documento é sterile: è fondamenta­le il colloquio con il ragazzo. Gli parliamo senza la presenza dei genitori, spieghiamo che cosa gli è successo, perché dobbiamo curarlo, le prospettiv­e, i tempi; non elenchiamo subito

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