«Il tycoon ai servizi sociali Come sarà il mio film ispirato da Berlusconi»
Daniele Luchetti: storia di un magnate condannato per un anno ai servizi sociali
Berlusconi non c’è, ma è come se ci fosse. Un’ombra, un’ipotesi vaga, un colpo di frusta. Daniele Luchetti, 56 anni, il regista di Domani accadrà (1988) e La scuola (1995), il profetico inventore del Portaborse (1991) capace di trasformare Nanni Moretti nel pestifero ministro Botero, pensava a una storia così, «divertente, con un deciso profilo politico», da almeno un paio d’anni. Dai venerdì di B. a Cesano Boscone, la parabola di un magnate della finanza, condannato per frode fiscale, che passa un anno ai servizi sociali, «un anziano signore che nega l’avanzare dell’età, le rughe, il mondo nuovo». Un Caimano la cui faccia è stata
trafugata da tutti i tg, costretto a riallacciare connessioni umane sparite dal suo orizzonte. Per cui si rifugia nello show, ribalta la realtà, mistifica, «sostiene che tirerà su il morale della truppa, e ci riesce anche, ma chi deve essere riabilitato è lui».
Rieducazione a rovescio: alla fine «saranno poveri e vecchietti ad avvicinarsi alle regole del Gran Simpatico, soldi & potere, non lui a migliorarsi». Titolo (provvisorio) del film, Tempesta, come il capolavoro di Shakespeare, ma senza l’articolo e senza Calibano. Protagonista, Elio Germano: il preferito di Luchetti. Inizio riprese a fine febbraio, set a Roma. Né un istant movie né, guai a pensarci, un biopic. E niente maschere. Una commedia sociale. Termine vintage che sposa satira e denuncia: altolà ai marpioni del business facile che ci hanno resettato la vita. Luchetti, quanto assomiglia
a Berlusconi il suo tycoon ai servizi sociali?
«Chiariamo subito che la vicenda di Berlusconi è solo lo spunto iniziale: la storia poi segue un corso diverso». Perché un film così?
«Fa parte della quotidiana battaglia dei cineasti italiani per rafforzare il dialogo con il pubblico e aiutarlo a capire». Pubblico molto cambiato.
«Sono cambiati i sistemi di comunicazione, il rapporto con l’oggetto cinema». In che senso?
«Vediamo più film di una volta. Ma andiamo meno nelle sale. E non paghiamo, o paghiamo soltanto in parte, la proiezione a cui assistiamo». Fuga verso le serie tv?
«Il consenso che il cinema regala alle piattaforme digitali deve avere un ritorno. Netflix produce Suburra in Italia dopo House of Cards negli Usa». Che cosa significa?
«Che Netflix ha bisogno di prodotti locali, e di qualità. Siamo pronti, nonostante la crisi: in Italia si producono 180 titoli all’anno,
negli anni d’oro erano 500. Capisce?». Quali sono le certezze del nostro cinema?
«Spettatori giovani che si educano attraverso i film. Una classe affiorante di registi in gamba. E un parco attori molto ristretto rispetto alle esigenze».
È soddisfatto del cammino di «Chiamatemi Francesco - Il Papa della gente»?
«Felicemente sorpreso, direi. Netflix ha acquistato la versione integrale, mai vista in Italia, e l’ha pubblicata come Netflix Original.
Tutti dei hanno manager, lodato che la in perspicaciarealtà da hanno15 milionisolo messodi dollari.un timbroLa cosa mi piace. È come entrare in una casa editrice di cui condividi totalmente la linea editoriale». Che cosa le ha insegnato quel film?
«Francesco racconta all’Occidente quello che è successo in Sudamerica mentre eravamo più o meno distratti: una Chiesa più avanti della politica, attenta al sociale, che ha sofferto la dittatura, superato l’eclissi economica e si è posta al servizio di chi non ha nulla. Per questo Francesco è arrivato a Roma». Francesco è l’unico, vero leader mondiale, come si dice?
«Il Pontefice è un autentico talento della comunicazione. Ma anche un’intelligenza moderna, consapevole dell’importanza dei rapporti con i media. Non è facile cambiare la Chiesa. Nella Curia di Buenos Aires, che ho frequentato durante le riprese del film, ho trovato diffidenze e divisioni. C’è chi considera Francesco un Papa tiepido». Da romano, che cosa pensa della situazione nella Capitale?
«Vedo una città abbandonata, maltrattata, sfregiata nel suo inestimabile decoro, che non sa difendere le fasce sociali più deboli. La colpa non può essere solo del sindaco. Troppi barbari hanno speculato, rubato, devastato, protetto bande e cricche». Ma che si può fare?
«Serve una classe politica all’altezza, competente, che non scansi le responsabilità. Guardi il cinema…». Ossia?
«Non resta che la fuga: la città della Dolce Vita e della Grande bellezza non aiuta i cineasti, semmai li ostacola. Terribile, eh. Direi di più: inammissibile». Milano invece galoppa?
mio «Troppofilm a Milano costosa. servivaPer girareun milione il budget di romano.euro in più Ho rispettodovuto rinunciare».al
Commedia Una commedia sociale, non una biografia: la vicenda del Cavaliere è solo lo spunto iniziale