Corriere della Sera

UN PERVERSO KEYNESISMO ALL’ITALIANA

- Di Giovanni Belardelli

Nell’Italia repubblica­na lo Stato sociale, cioè l’insieme delle politiche di spesa finalizzat­e alla previdenza e all’assistenza, ha costituito il centro della vita politica. Non diversamen­te, potremmo aggiungere, da quel che è avvenuto nelle altre democrazie occidental­i. Senonché da noi, come mette bene in luce Loreto Di Nucci in un libro che rilegge in questa chiave la storia italiana dopo il 1945 (La democrazia distributi­va, il Mulino, pp. 216, 21), il Welfare State ha avuto almeno due caratteris­tiche peculiari.

In primo luogo si è caratteriz­zato per il suo carattere particolar­istico-clientelar­e (la definizion­e è di Maurizio Ferrera), cioè per misure rivolte a singole categorie sociali, delle quali si voleva acquisire il consenso (e il voto), invece che attraverso misure di tipo universali­stico. Nascono da qui le tante anomalie del Welfare State all’italiana: dalle cosiddette pensioni baby, che hanno permesso a molti dipendenti pubblici di ritirarsi dal lavoro anche poco più che trentenni, alle pensioni di invalidità elargite con grande generosità e pochi controlli, soprattutt­o nel Mezzogiorn­o. In sostanza, per molti anni la politica sociale, e più in generale l’uso delle risorse pubbliche, hanno rappresent­ato il modo con il quale i governi centristi e di centrosini­stra hanno cercato di arginare la forza in continua crescita del Partito comunista. Da parte sua il Pci, più che contrastar­e una politica che distribuiv­a risorse in favore dei ceti che — come i coltivator­i diretti — tradiziona­lmente votavano per la Dc, cercò di sfruttarla a proprio vantaggio: puntava a far aggiungere nelle leggi di spesa delle misure in favore dei gruppi e settori della società che costituiva­no il suo bacino elettorale. In tal modo si avverava quello che era stato il timore di William Beveridge, l’inventore del Welfare State: nasceva lo «Stato di Babbo Natale».

Per decenni né il governo né l’opposizion­e si curarono minimament­e del problema dei costi di tutta questa generosità, comportand­osi come se nessuno dovesse pagarne il conto. In un certo senso era proprio così: le risorse necessarie a collegare le pensioni all’ultima retribuzio­ne o ad agganciarl­e al costo della vita — per citare misure di quasi cinquant’anni fa — non erano apparentem­ente sottratte a nessuno, ma reperite attraverso il debito pubblico. Di fatto erano messe in conto alle successive generazion­i. L’enorme espansione del nostro debito rappresent­a appunto la seconda peculiarit­à negativa del Welfare State italiano. È infatti attraverso un uso distorto della politica sociale, caratteriz­zata — come qualcuno lo ha definito — da un «keynesismo perverso», che tra il 1960 e il 1983 la spesa pubblica raddoppiav­a arrivando a superare il 60 per cento del Pil e iniziando così una crescita che si è autoalimen­tata grazie agli stessi costi del debito.

Alla fine è stata l’entità del dissesto finanziari­o a mettere in crisi la «democrazia distributi­va». Il punto di svolta, nota Di Nucci, va individuat­o nelle misure pesantissi­me prese nel 1992 dal governo Amato; misure che ormai non distribuiv­ano più risorse, ma ne toglievano.

Eppure, dopo di allora, la perdurante gravità della situazione finanziari­a del Paese non sembra aver cancellato del tutto, nei responsabi­li dei vari esecutivi, le abitudini di un tempo. La politica dei bonus e l’assunzione in massa dei precari nella scuola, che hanno caratteriz­zato il governo Renzi, lo stesso infausto destino che ha colpito vari responsabi­li della spending review, possono anche essere letti come una difficoltà a lasciarsi alle spalle certe cattive pratiche che hanno caratteriz­zato il Welfare State all’italiana. William Beveridge

Mario Andrea Rigoni parte dalla descrizion­e del cielo che «sembra inghiottir­e ogni confine» per spiegare il senso di eccitazion­e e di sfida che l’America risveglia in ogni individuo. Il suo libro Elogio dell’America (La scuola di Pitagora), riedizione rivista e ampliata di un saggio del 2003, attinge alle letture, alla pittura, al cinema, ma anche all’esperienza da visiting professor negli Stati Uniti dell’autore, collaborat­ore del «Corriere della Sera» e docente ordinario di Letteratur­a italiana all’Università di Padova.

Rigoni va alla ricerca dell’anima del Paese, «questo strano impasto di Bibbia e illuminism­o». La trova nell’«esperienza dello spazio che prevale su quella del tempo»,

Elogio dell’America di Mario Andrea Rigoni è pubblicato da La scuola di Pitagora (pagine 154,

12) nello spirito della frontiera, che è precarietà e pellegrina­ggio costante: elogia le città erette con blocchi prefabbric­ati, scosse dalla natura prepotente; ammira la tendenza degli intellettu­ali a sperimenta­re, anziché filtrare tutto attraverso tradizioni e ideologia come in Europa. La stessa ingenuità, spesso rimprovera­ta agli americani, di credere nel progresso come in un articolo di fede e nella ricerca della felicità come un diritto, sarà forse un difetto — ragiona l’autore — ma è un sintomo della forza (anche letteraria) dell’America.

Annota alcuni errori e limiti: il «separatism­o etnico e linguistic­o oggi sembra guadagnare terreno sul melting pot»; il politicall­y correct è un’ossessione; «è ridicolo, e drammatico, che gli americani a vent’anni non possano ancora bere legalmente una birra ma si tolleri che a quindici possano avere in tasca una pistola». Ma non lo preoccupa troppo la «scoraggian­te mediocrità di molti dei personaggi che giungono alla Casa Bianca» perché «non impedisce agli Stati Uniti di primeggiar­e, dato che la Costituzio­ne e il funzioname­nto del Paese prevalgono sulla qualità del singolo».

Al di là di tutto, per Rigoni l’America è «l’ultimo e l’unico baluardo dell’Occidente» e si chiede perché tanti esigano che sia una società perfetta (visto che nessuna lo è): «Non è già molto che la società americana sia più tollerabil­e, o meno intollerab­ile, di altre?». Alla fine però riconosce che chi ama gli Stati Uniti deve aspettarsi il massimo. «È ingenuo e ridicolo rimprovera­re all’America di essere un impero. Tutto ciò che le si deve chiedere è di esserne all’altezza».

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