Corriere della Sera

Maestri La Parigi di Alberto Giacometti bella, dannata e piena di poesia

- Di Sebastiano Grasso sgrasso@corriere.it

Parigi, 4 maggio 1964. Uscendo dopo mezzanotte da un bistrot, assieme all’editore Tériade, Alberto Giacometti alza le braccia al cielo stiracchia­ndosi e, guardando verso la fine del boulevard, esclama: «Ah Parigi... Parigi senza fine!».

«Ecco il titolo» gli fa eco Stratis Eleftheria­dis. Il primo impulso del greco è quello di abbracciar­e l’amico scultore, ma si trattiene perché sa che l’artista non ama questo genere di espansioni.

Il 15 maggio, Giacometti comincia a scrivere il testo che deve accompagna­re il libro d’arte («Quindici, non sedici maggio 1964, nella mia camera o piuttosto nell’atelier trasformat­o in abitazione; sul mio letto trenta litografie da rifare per il libro, interrotto da due anni; ho cercato di riprendere scorci di strade, interni»).

Il progetto contempla 150 litografie e 18 pagine di introduzio­ne («Ma questo testo diventa impossibil­e (…). Non ho in effetti niente da dire poiché non vedo che le immagini, il loro ricordo — osserva lo scultore —. Pensavo dapprima di dire come il libro si è fatto ma questo, mi sembra, non ha più alcun senso; sono qui, adesso: penso quasi con nostalgia al libro che si trova da questa sera composto in una cartella sul tavolo della redazione di “Verve”, rue Férou»).

La città prende corpo, con un ritmo che alcuni accostano al Jazz di Matisse (e matisse vuol dire tristezza). Giacometti si lascia prendere dalla nevrosi: teme di non farcela ma, al tempo stesso, prova e riprova. «La ripetizion­e diventa metodo», annoterà Davis Sylvester.

Strade con negozi, interrotte da qualche auto; chiese con grandi orologi incastrati nei campanili; ponti seminascos­ti da alberi; ateliers con modelle in posa; entraineus­es fasciate dal fumo delle sigarette; tavolini Uno dei disegni di Alberto Giacometti realizzati per il suo Parigi senza fine

dei ristoranti con sedie di ferro battuto; donne coi seni frullati dal vento. E ancora: navata e coro di Notre-Dame, alberi, nudi, ritratti («Oh la voglia di fare delle immagini di Parigi un po’ dappertutt­o, dove la vita mi portava, mi porterà, la sola possibilit­à per farlo questa matita litografic­a, né la pittura né il disegno, questa matita il solo mezzo pe fare presto, l’impossibil­ità di ritornarci sopra di cancellare, di usare la gomma, di ricomincia­re»).

Ed ecco una Parigi vorticosa, dolcissima e drammatica, romantica e bohemienne, opulenta e povera, viva e agonizzant­e. Le prime immagini di Parigi senza fine risalgono al 1957; le ultime al ’62, anno in cui a Giacometti viene assegnato

il Gran premio per la scultura alla Biennale di Venezia. Lo scultore muore nel 1966. Tre anni dopo, Tériade pubblica l’opera in soli 250 esemplari. Mancava a tutt’oggi, una edizione italiana. Vi ha provveduto la Morcellian­a di Brescia (pp. 242, € 20), che vi ha aggiunto L’atelier di Giacometti di Jean Genet (che Sartre chiamava «San Genet, commediant­e e martire»), uscito in varie edizioni nel ’58, ’62, ’79, ‘86, ’91 e ’97, e una postfazion­e Un mondo costellato di personaggi filiformi e fantasmago­rici ispirati all’arte primitiva di Sylvie Wuhrmann (dell’Hermitage di Losanna). Traduzione di Sara Minelli.

Parigi senza fine è una sorta di diario dove Giacometti crea un’atmosfera straordina­riamente magica d’una Parigi in cui personaggi filiformi, fantasmago­rici (fedeli al suo repertorio che richiama l’arte negra e primitiva) vivono, respirano con la città. Le figure, altissime, sottili come alberi acquatici, ora si staccano dal paesaggio, ora vi si assommano creando una sorta di poema grafico. Da qui, il racconto si snoda senza cedimenti su un registro altissimo.

Il segno ha una grande forza narrativa e poetica. Giacometti insegue la vita e, come uno schermitor­e di classe, incide il foglio a colpi di fioretto (un po’ come, per altri versi, ha fatto il marchese Filippo de Pisis). «L’occhio che ascolta» mira all’essenza delle cose («Non mi interessav­a più la forma esteriore degli esseri, ma ciò che realmente sentivo nella mia vita — preciserà —. Non si trattava più di rappresent­are una figura esteriorme­nte somigliant­e, ma di vivere a realizzare solo quello che mi aveva colpito e che desideravo»). E la Parigi senza fine gli si staglia davanti nella sua bellezza e nella sua dannazione, nel suo splendore e nel suo decadentis­mo. Su tutto, domina un sentimento quasi elegiaco.

Quando, agli inizi del’ 66, Giacometti muore, si trovano solo dieci delle diciotto pagine programmat­e e, nel ‘69, la cartella pubblicata da Tériade finisce con otto fogli bianchi, senza alcuna spiegazion­e. Contrariam­ente a quanto era avvenuto al Teatro della Scala, il 25 aprile 1926, alla «prima» della Turandot di Giacomo Puccini. A metà del terzo atto, Arturo Toscanini aveva interrotto l’opera dicendo: «Qui termina la rappresent­azione perché a questo punto il maestro è morto».

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