«Sei un eroe», il tifo in Rete dopo il delitto
Vasto, nascono gruppi su Facebook. L’assassino: non volevo ucciderlo, mi ha sfidato
Nel carcere di Vasto, dove Fabio Di Lello è rinchiuso per aver ucciso a colpi di pistola Italo D’Elisa, imputato per l’incidente stradale in cui era morta sua moglie, nega la premeditazione. «Non volevo uccidere — racconta —. Stavo tornando con la mia macchina dal campo di calcio. A un certo punto ho visto il ragazzo in bicicletta. Lui mi ha provocato». Intanto su Facebook i gruppi inneggiano al «giustiziere».
Confuso, triste, dispiaciuto. «Ma in grado di spiegare quel che è successo», assicura l’avvocato Giovanni Cerella che ieri l’ha incontrato nel carcere di Vasto, dove si trova in isolamento. Parla dunque per la prima volta Fabio Di Lello, il trentaquattrenne che mercoledì scorso ha ucciso in pieno giorno Italo D’Elisa davanti a un bar di Vasto con tre colpi di pistola, così, come nel Far West.
«È successo tutto in modo imprevedibile — ha detto l’uomo al suo legale —. Non volevo uccidere. Stavo tornando con la mia macchina dal campo di calcio del Cupello. A un certo punto ho visto il ragazzo in bicicletta. Veniva in senso opposto, ci siamo guardati».
Cerella ha registrato mentalmente le sue parole: «Mi ha detto: avvocato, aveva quel solito sguardo di sfida. Allora ho fatto inversione di marcia. Lui si era fermato al bar. Ho parcheggiato e sono sceso. Non per ucciderlo ma solo per parlargli. Avevo infatti lasciato la pistola in macchina. Appena uscito dal bar, mentre stava tornando a riprendere la bici, mi sono avvicinato a lui. Quando mi ha visto ha fatto il provocatore, come sempre». In che senso, avvocato? «Non saprei. Dice solo che l’ha provocato — non va oltre il legale —. Comunque sia mi ha detto: senta Cerella, non ci ho visto più. Sono tornato in macchina ho preso la pistola e l’ho ucciso».
Questa, dunque, la versione dei fatti del fornaio di Vasto diventato assassino. Una provocazione, un gesto di sfida, la follia. «Io francamente non me lo vedo Italo a sfidare l’altro, non era sbruffone», aveva precisato il padre della vittima, Angelo D’Elisa, parlando con grande dignità di suo figlio morto ammazzato per aver travolto e ucciso ad un incrocio Roberta Smargiassi, la moglie di Di Lello. Domanda: possibile che il fornaio, in cura psichiatrica e sotto effetto di psicofarmaci da mesi, potesse girare armato? Peraltro, si scopre ora, con una calibro 9 acquistata di recente, in settembre, dopo il tragico incidente della moglie. Quando cioè era già finito nel buco nero dell’ossessione.
«Andava al cimitero tutti i giorni e si portava pure gli amici
Il ministro Orlando La difesa della Procura: «No ai populismi, non si scarichi questo delitto sulla giurisdizione»
più stretti, Lele e Ilario, soprattutto Lele che era stato lasciato dalla moglie — racconta un amico dei tre —. Aveva messo una panchina e si sedevano davanti alla tomba. All’inizio Fabio dormiva pure lì, con lei». Un’arma in una condizione mentale del genere non è il miglior compagno di viaggio. Perché, dunque, non gli è stato sospeso il porto d’armi? «Perché la verità è che nulla faceva presagire con evidenza tutti questi rischi», rispondono gli inquirenti.
Nella mente di Fabio, invece, covava un fuoco. Se sarà confermata la notizia data ieri dall’avvocato Pompeo Del Re, difensore del giovane ucciso, c’era anche un altro elemento sospetto: «Lo scorso primo dicembre Fabio Di Lello si è spogliato di tutti i suoi beni per intestarli ai genitori — ha detto il legale che ieri ha segnalato la vicenda in Procura —. Questo deporrebbe a favore della premeditazione del gesto. Potrebbe averlo fatto per non essere aggredito nel patrimonio dopo il delitto che stava forse meditando». Circostanze ora al vaglio della procura. (Ieri, in difesa dei magistrati, è intervenuto
il ministro della Giustizia Orlando, che ha definito il delitto «un atto inaccettabile che è stato scaricato in modo populista sulla giurisdizione, in un tribunale che tra l’altro ha tempi migliori della media europea»).
Una cosa è certa: Di Lello voleva Italo in galera. «Ogni volta che ci incontravamo mi sfidava con lo sguardo e ripassava sempre due volte», è oggi il suo ritornello. Lo ripete fin dal giorno dell’omicidio. Quando il maresciallo Antonio Castrignanò lo raggiunse in cimitero dopo il delitto: «Con lui c’era il papà di Roberta, il suocero, che gli diceva “hai sbagliato Fabio, non dovevi farlo”». Anche lui, Fabio Di Lello, se n’è convinto: «Ho sbagliato avvocato, mi sono rovinato la vita».