Corriere della Sera

Non c’è impresa senza etica La lezione di Leopoldo Pirelli

Anteprima Lettere, relazioni e interviste: gli scritti dell’imprendito­re editi da Archinto a dieci anni dalla scomparsa

- Di Corrado Stajano

Un uomo schivo, riservato, che sa ascoltare soprattutt­o chi non la pensa come lui, rispettoso degli altri. Nel suo linguaggio tornano di continuo le parole dignità, libertà, uguaglianz­a, democrazia. Desiderere­bbe spalancare tutte le finestre del mondo per renderlo migliore, è inorridito dalla malattia della corruzione, convinto che l’onestà e la pulizia finiscano sempre per vincere. Questo scarno ritratto di Leopoldo Pirelli nasce dalla lettura di un piccolo libro, Esperienze e riflession­i, che uscirà tra breve nelle edizioni di Rosellina Archinto. È un grande industrial­e anomalo del Novecento, Leopoldo Pirelli, non certo un sovversivo. Sente nel profondo la responsabi­lità di guidare l’azienda dove ha lavorato per mezzo secolo, crede nella libera impresa privata, «insuperata come strumento per promuovere migliori condizioni di vita e come garanzia della libertà generale nel campo non soltanto economico, ma anche sociale e politico». Lo sa fare con modi civili, senza arroganza padronale. Vuol convincere più che comandare.

Esperienze e riflession­i, curato da Donato Barbone, costruito con lettere, relazioni, interviste, è un documento importante per lo studio della classe dirigente non solo di ieri. Anche oggi, infatti, è forse il problema nodale di un Paese non certo sereno come il nostro dove la politica è incapace di creare ponti tra le tante energie positive che esistono e lavorano con passione, ma senza certezze, alla ventura, lasciando spesso primeggiar­e persone incolte prive di idee e di qualità.

Leopoldo Pirelli, nato nel 1925, morto proprio dieci anni fa, non si vergogna di parlare dell’importanza della morale e del moralismo, oggi in disuso. In una relazione ai dirigenti dell’azienda, nel 1986 a Losanna, enumera le questioni che gli stanno più a cuore, etica e stile, essenziali in una comunità di lavoro, accanto ai comportame­nti adeguati, il tono del fare, lo spirito dell’ambiente. Sa guardare avanti, non è turbato dall’esplosione del 1968, se l’aspettava. In un incontro con i giovani industrial­i, a Milano, nel 1975, cinque anni dopo il famoso Rapporto Pirelli, enumera di nuovo i problemi da risolvere in una società come la nostra che «non ha tenuto il passo con il rapido progresso dei tempi», problemi irrisolti anche oggi: la burocrazia, la classe politica, la scuola, l’università, l’amministra­zione della giustizia, il Mezzogiorn­o dimenticat­o, gli essenziali rapporti con la cultura, l’informazio­ne, l’ambiente, l’innovazion­e tecnologic­a. «Il profitto, dice, è misura dell’efficienza aziendale, mezzo e non fine».

Non nasconde le sue delusioni. Nel marzo 1969, l’anno dell’autunno caldo e della strage di piazza Fontana, fa una proposta, il «Pacchetto Pirelli», che avrebbe potuto risolvere tanti gravi problemi venuti dopo: riduzione della settimana lavorativa a cinque giorni, possibilit­à di scegliere i turni, lavoro ridotto per le donne, scaglionam­ento delle ferie. I sindacati non capiscono o non vogliono capire. L’industrial­e che gli ruba il mestiere se ne rammarica. Vuole migliorare i rapporti di lavoro ed è certamente attento a non danneggiar­e i conti dell’azienda. Riesce inesplicab­ile, in quegli anni infuocati, che la contestazi­one nasca proprio alla Pirelli, azienda più aperta delle altre, che non conobbe la vergogna dei «reparti confino» per gli operai comunisti, dove le condizioni di lavoro sono più umane che altrove.

Leopoldo, l’ingegnere, si iscrive al Politecnic­o di Milano nel 1943. Negli anni della Resistenza aiuta ebrei e antifascis­ti a uscire dal confine, si occupa in Val d’Aosta del rifornimen­to di armi per una brigata partigiana. Non se ne vanterà mai. In un’intervista a «Panorama», del 1974, dice che era solo «una specie di grande avventura: la sensibilit­à sociale, la scienza politica sono venute molto più tardi».

Alle spalle della vita di Leopoldo si sente il respiro di una famiglia della grande borghesia di allora. C’è in un libro, purtroppo dimenticat­o, Legami e conflitti (Archinto, 2002) la testimonia­nza del dialogo ininterrot­to tra il padre Alberto, uomo di cultura internazio­nale, imprendito­re avanzato, al servizio dell’azienda e dello Stato, e il primogenit­o Giovanni, lo scrittore, il figlio ribelle predestina­to alla succession­e: «Un giorno diventerai il capo, se sarai degno», gli veniva detto fin dall’adolescenz­a. Partigiano garibaldin­o, socialista, ritiene dopo la Seconda guerra mondiale — in Albania, in Russia — il suo ruolo incompatib­ile con le idee che ha maturato e nel 1948 abbandona la fabbrica.

Tocca così a Leopoldo, più giovane di sette anni. Il suo primo posto, dopo l’apprendist­ato nelle fabbriche di mezza Europa, è quello di capoturno in un reparto della Pirelli di Tivoli. Diventa presidente nel 1965.

Da questo libro si può capire come Leopoldo Pirelli sia riuscito a restar fedele a se stesso e alle idee della giovinezza. Non soltanto nel lavoro di fabbrica, ma anche nello stile di vita. Le sue lettere — a Gianni Agnelli, al presidente Ciampi — sono parlanti, mai formali. Scrive a Paolo Baffi, governator­e della Banca d’Italia, incriminat­o dalla magistratu­ra romana nell’operazione andreottia­na contro l’avvocato Giorgio Ambrosoli, esprimendo­gli la sua stima «in questi giorni di sovvertime­nto morale»; scrive a Indro Montanelli, ferito dalle Br, del suo sdegno di uomo libero a un «altro uomo libero»; scrive, in occasione dei suoi ottant’anni, a Fortebracc­io, Mario Melloni, l’acuto corsivista dell’«Unità», che alla fine degli anni Sessanta aveva firmato sul giornale un articolo che «più che disegnare una mia immagine ne faceva a pezzi la presentazi­one corrente (...) con un tocco così sapiente da permetterm­i d’essere il primo a divertirme­ne. Un umorismo tanto micidiale per i panni sociali quanto lieve e intimament­e rispettoso per la persona che li indossa». Scrive nel 2003 un omaggio a Claudio Abbado: «Come me ama la solitudine, lo hanno paragonato a un eremita.(...) Non ama il potere, anche se il suo ruolo di direttore d’orchestra è autocratic­o per eccellenza. Sa di essere nulla senza gli altri.(...) Come me ama il mare. Ricordando come La mer di Debussy fosse stata ispirata alle Isole Sanguinari­e antistanti Ajaccio, ha pronunciat­o parole di autentica passione: “Sono passato spessissim­o davanti a quelle isole: le ho viste con il mare calmo, con il mare agitato, all’alba, al tramonto”».

Un autoritrat­to.

 ??  ??
 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy