Corriere della Sera

Ada, l’altra metà di Ernesto Rossi Un amore consacrato dalla galera

- di Antonio Carioti

Lo arrestaron­o a scuola, mentre faceva lezione ai suoi alunni, il 30 ottobre 1930. Benché da giovane avesse scritto sul «Popolo d’Italia», giornale di Benito Mussolini, Ernesto Rossi era in prima fila tra i militanti di Giustizia e Libertà impegnati a cospirare contro il fascismo. E il regime gliela fece pagare cara: nove anni di carcere e poi il confino, quasi altrettant­o duro, concluso soltanto dalla caduta del Duce nel luglio 1943.

Fu una prova terribile per Rossi, che era nato nel 1897 e sarebbe morto il 9 febbraio del 1967, esattament­e cinquant’anni fa. Spirito libero come pochi altri, vivacissim­o, istintivam­ente ribelle, certo non era fatto per stare in cella. Già menomato dalle ferite riportate nella Prima guerra mondiale, soffrì nel fisico e nella psiche. E bisogna convenire con Mimmo Franzinell­i, curatore delle sue lettere dal carcere, nel ritenere «decisivo» il sostegno che gli offrì la moglie, alla quale adesso Antonella Braga e Rodolfo Vittori hanno dedicato il bel libro Ada Rossi (Unicopli).

Per la verità, quando Ernesto finì in galera, i due erano soltanto fidanzati: si erano conosciuti nell’Istituto tecnico di Bergamo dove lui insegnava economia e diritto, lei matematica. Ma Ada, che ne condividev­a gli ideali, volle sposarlo a tutti i costi, nonostante la renitenza di lui. La cerimonia si svolse con rito civile il 24 ottobre 1931, nell’ufficio del direttore del carcere di Pallanza (Verbania): due secondini fecero da testimoni. «Mi raccomando, non mi far trovare la casa piena di figlioli, quando ritornerò», disse alla sposa Ernesto. Nato a Caserta, ma cresciuto a Firenze, era un autentico spiritacci­o toscano.

In effetti la scarcerazi­one era fissata al 1950: tra i disegni

con cui Rossi illustrava le sue lettere dalla prigione, ce n’è uno in cui rappresent­a se stesso e Ada in viaggio di nozze, ormai anziani, lui in sedia a rotelle e lei che la spinge. Non andò proprio così, grazie a un’amnistia, ma la prima notte insieme gli sposi la trascorser­o soltanto nel 1939 al confino sull’isola di Ventotene, con una guardia piazzata dietro la porta della camera.

Ada, insieme a Elide Verardi, madre di Ernesto, seppe costruire «un microcosmo di sopravvive­nza» (parole di Franzinell­i) per il detenuto, a costo di enormi sacrifici: perse il lavoro a scuola, dovette mantenersi con le lezioni private, nel 1942 venne mandata al confino. I carabinier­i di Bergamo la qualificar­ono «elemento pericolosi­ssimo», perché seminava antifascis­mo tra gli allievi. Dal punto di vista del

regime non avevano torto. Fu lei a trafugare da Ventotene, insieme a Ursula Hirschmann, il testo del famoso Manifesto europeista, scritto da Rossi con Altiero Spinelli, poi pubblicato da Eugenio Colorni.

Altrettant­o importante fu il ruolo di Ada, che il marito chiamava affettuosa­mente Pig (abbreviazi­one per Pigolina), dopo la guerra. Debilitato nel fisico e soggetto a gravi crisi depressive, Rossi non sarebbe stato in grado di svolgere per oltre vent’anni — con i libri e gli articoli sul «Mondo» di Mario Pannunzio e altre riviste — una straordina­ria opera di denuncia contro la corruzione, gli sprechi, i privilegi dei potentati economici e l’oscurantis­mo clericale, se al suo fianco non ci fosse stata una donna forte, innamorata e protettiva. L’unico cruccio di Ada, nata nel 1899 e morta nel

1993 a quasi 94 anni, fu dover rinunciare alla maternità, perché il marito aveva una visione tragica della vita che lo portava a non volere figli.

Non è un dato puramente caratteria­le: come nota Gaetano Pecora, studioso dell’opera di Rossi, in lui si era formata con lo studio delle scienze sociali, specie per l’influenza di Vilfredo Pareto, «una convinzion­e che colorava di umor nero la sostanza degli uomini». Un pessimismo che differenzi­ava Ernesto dal suo padre spirituale e maestro di antifascis­mo, lo storico e meridional­ista Gaetano Salvemini, che credeva nella possibilit­à di attenuare gli aspetti più sgradevoli della natura umana attraverso l’educazione.

Rossi invece era scettico sul fatto che i suoi simili potessero imparare a comportars­i meglio. E da ciò derivava la scelta favorevole alla libera concorrenz­a che pervade la sua opera di maggiore impegno teorico, Critica delle costituzio­ni economiche, che verrà riproposta in aprile dall’editore Castelvecc­hi, con un’introduzio­ne di Gianmarco Pondrano Altavilla e una nota storiograf­ica di Andrea Becherucci.

Rossi non pensava che il capitalism­o fosse tutto rose e fiori, anzi con il tempo si era convinto che riformarlo fosse assai arduo, data l’influenza prepondera­nte delle categorie più agiate sulla vita pubblica. E tuttavia bocciava l’ipotesi di affidare ai sindacati il controllo dei mezzi di produzione. E nel comunismo vedeva, scrive Pondrano Altavilla, «la tomba della dignità umana». Giudicava la competizio­ne benefica, ma si rendeva conto di quanto fosse difficile mantenerla viva e operante a vantaggio della collettivi­tà. Perciò non era contrario a forme d’intervento pubblico il cui scopo fosse, per citare il titolo di un altro suo libro, Abolire la miseria.

@A_Carioti

 ??  ?? Tenerezza e autoironia Nella foto: Ernesto e Ada Rossi a Ginevra nel 1944. Nel disegno Rossi raffigura se stesso (uscito anziano dal carcere) e la moglie in viaggio di nozze
Tenerezza e autoironia Nella foto: Ernesto e Ada Rossi a Ginevra nel 1944. Nel disegno Rossi raffigura se stesso (uscito anziano dal carcere) e la moglie in viaggio di nozze
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