«Matteo accetti il congresso La bocciatura al referendum non si può rimuovere»
Il governatore pd: ma il segretario ha l’energia per riproporsi
Caro direttore, nel dibattito che si sta sviluppando nel Pd e dintorni, dopo la sconfitta referendaria, emergono solo posizionamenti di potere, di singoli e di gruppi, del tutto legittimi e anche necessari, ma che dovrebbero essere legati a visioni e a progetti politici per il Paese. Visioni e progetti che invece non ci sono o che ci sono talmente poco da non essere percepiti.
Abbiamo perso il referendum perché gli elettori hanno colto l’occasione per bocciare una politica che, per quasi un anno, ha inchiodato il Paese su temi di ingegneria istituzionale, certo rilevanti, ma gestiti in maniera tale da rafforzare quell’immagine autoreferenziale della politica da tempo sul banco degli imputati. Con un decisionismo declamatorio spesso percepito come arrogante, che non ha peraltro raggiunto i risultati promessi. Una ricerca esasperata del consenso a breve termine e a ogni costo che ha finito per oscurare quelle politiche e quei risultati che pure ci sono stati, se solo si pensa a una legge storica come quella sulle unioni civili o alle politiche di accoglienza verso i migranti, o ancora alla giusta sfida per un’Europa democratica e non burocratica.
Mi pare che di tutto ciò vi sia poca consapevolezza, prevale la rimozione. Una rimozione tanto più grave perché la bocciatura è venuta prevalentemente dai giovani e dalla parte più debole del Paese, cioè dove la sinistra dovrebbe guardare con maggiore attenzione.
Quanta flessibilità (cioè disponibilità finanziaria a debito) abbiamo ottenuto in sede europea nelle ultime leggi di Stabilità e quanta ne abbiamo utilizzata per una riduzione di tasse senza qualità di cui l’abolizione dell’Imu sulla prima casa per tutti è la rappresentazione concreta?
Quanta ne abbiamo utilizzata per una politica di incentivi al lavoro e all’impresa che hanno fatto, nel migliore dei casi, l’effetto fiammata, senza creare convenienze di medio periodo per una ripresa degli investimenti e dell’occupazione? D’altra parte, ogni qualvolta si incentiva qualcosa è difficile stabilire se quel qualcosa non sarebbe stato fatto lo stesso anche senza agevolazioni, mentre, per converso, è certo che appena l’agevolazione finisce tutto si ferma.
Ormai da alcuni anni la Guardia di finanza stima in circa 110 miliardi di euro annui il volume dell’evasione fiscale. Che sia una cifra da capogiro inutile dirlo. Ammettiamo, a essere generosi, che il 40% sia fisiologica (perché l’Italia è larga e lunga etc), stiamo comunque parlando di circa 60–70 miliardi di euro, l’equivalente di tre, quattro leggi di Stabilità. Né possiamo pensare che bastino gli 007 della Finanza per fare emergere tanta evasione. È evidente che ci sono storture del sistema fiscale cui bisogna rimediare. Ci vorrebbe una riforma, si sarebbe detto un tempo.
Proviamo allora a sommare e riordinare queste cifre e ci troveremo davanti, senza esagerare, a un centinaio di miliardi, un vero e proprio tesoro da impiegare per accelerare gli investimenti pubblici soprattutto nella scuola (sicurezza e qualità degli edifici), nella sanità (edilizia e innovazione tecnologica), nella difesa del territorio (messa in sicurezza e bonifiche), per rafforzare, anche mettendo a sistema i fondi europei attribuiti alle Regioni, investimenti sugli Atenei e su formazione e ricerca, cioè sui fattori che possono attrarre investimenti esteri e indurre le nostre imprese a investire e assumere. E poi ancora per avere una base finanziaria solida da cui partire per riformare le politiche sociali, costruendo un reddito di inclusione che sostenga per un periodo definito, non troppo breve, chi cerca lavoro una volta finiti i percorsi formativi, così come quelle persone che perdono reddito e ammortizzatori sociali nel corso della loro vita lavorativa.
Quel che è stato è stato e non è più recuperabile.
Però su questa base si potrebbe delineare un terreno di negoziazione con l’Unione Europea chiaro, finalizzato alla crescita e alla coesione sociale, insieme all’altro grande tema che è quello dell’accoglienza dei migranti.
A questo punto, se fossi Renzi, su una base di questo tipo definirei una piattaforma politico-programmatica nuova e accetterei fino in fondo la sfida del congresso anticipato riproponendo la sua leadership, anche per non disperdere quell’energia e quello slancio che un paio di anni fa avevano rappresentato una speranza nuova per la sinistra e per il Paese.
Vent’anni e più dopo la crisi della cosiddetta Prima Repubblica sembra che il morto riafferri il vivo. Per impedire che lo soffochi non servono, o comunque non bastano, tecniche di ingegneria elettorale. Ci vogliono soggetti politici forti, capaci — se necessario — di costruire alleanze credibili e durature qualunque sia il sistema elettorale.
Infine, per non sfuggire ai «retroscena», non intendo candidarmi a nulla, né, tantomeno, partecipare a operazioni scissionistiche. Ne abbiamo già avute troppe. Voglio solo terminare il mandato che i cittadini piemontesi mi hanno affidato senza il rimorso di non aver detto quel che pensavo.
Il 4 dicembre gli elettori hanno bocciato una politica autoreferenziale, un decisionismo declamatorio, percepito come arrogante Per quanto mi riguarda non intendo candidarmi a nulla
*presidente della Regione Piemonte