I bambini senza sorriso hanno bisogno di cure «in rete»
I centri per la sindrome di Moebius ci sono ma il network non è riconosciuto
edici anni. Tanti ne sono passati, da quando tra l’Università e l’ospedale di Parma e l’Associazione Italiana Sindrome di Moebius (AISMO) è nata una collaborazione che ha permesso di individuare uno staff multidisciplinare all’interno dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria di Parma per le cure di questa malattia rara (si veda grafico) dal quadro molto complesso. Chi ne soffre non può sorridere, ha problemi di alimentazione, dentali e di udito, e difficoltà a parlare. In Italia si stima che potrebbero essere 450 i casi.
I pazienti oggi arrivano anche da altri Paesi, comunitari e non (Grecia, Marocco, Romania, Ucraina, Israele, Albania). Attorno al nucleo centrale di Parma si è poi creato un modello di collaborazione che coinvolge gli esperti dell’ospedale Maggiore Policlinico Regina Elena e dell’ospedale San Raffaele, di Milano. Ora pazienti, familiari e medici chiedono a gran voce che questo esempio positivo diventi una rete a tutti gli effetti. «Parma è un Centro di riferimento già riconosciuto a livello regionale in Emilia Romagna — spiega Renzo De Grandi, presidente dell’associazione —: vogliamo che lo sia anche a livello nazionale. Ci sono competenze, capacità, umanità e attenzione verso le famiglie».
È una storia da raccontare quella della sindrome di Moebius. Perché senza il concatenarsi di una serie in apparenza casuale di fatti, imperniati sulla vicenda personale della famiglia De Grandi, forse staremmo ancora a chiederci che cosa sia la sindrome e chi ne è affetto dovrebbe rivolgersi all’estero per le cure. Grazie all’intuito e alla determinazione di una pediatra di base, Ambrogina Pirola, nel 1997 De Grandi è stato indirizzato da una oculista di Monza che per la prima volta gli ha parlato della sindrome di Una forma rara (circa 1 caso ogni 100.000 nati) a Chirurgia maxillo-facciale dell’Aou di Parma è l’unica in Italia e una delle poche in Europa e nel mondo a utilizzare la «Smile surgery» ideata dal chirurgo canadese Ronald Zuker per ricostruire i muscoli del sorriso. Il primo intervento a Parma è stato eseguito nel 2003. «Da allora siamo arrivati a 80 trapianti su 50 pazienti — spiega il chirurgo Bernardo Bianchi —. Si tratta di numeri alti, considerato che la sindrome di Moebius è molto rara». L’intervento è in realtà il
La caratteristica principale è la paralisi facciale permanente causata dalla ridotta o mancata formazione dei nervi cranici 6 e 7. I bambini colpiti non possono sorridere, fare smorfie, né spesso chiudere e/o muovere gli occhi lateralmente
LE CAUSE Non sono certe. Si parla di fattori genetici e/o ambientali che portano a disfunzioni già presenti alla nascita
LE CURE Quelle principali sono: chirurgia, fisioterapia, logopedia, ortodonzia. La «Smile-surgery» può risolvere il problema del sorriso Moebius. Poi sono arrivati la partecipazione ad un congresso internazionale negli Stati Uniti, l’incontro con le associazioni americane e con il professor Ronald Zuker il chirurgo che in Canada aveva ideato la tecnica di “Smile Surgery”, l’intervento A Parma, dove sono stati scoperti dall’equipe del neuroscienziato Giacomo Rizzolati, non poteva mancare un filone di ricerca anche sulle implicazioni dei neuroni specchio nella sindrome di Moebius. Questi neuroni, presenti nelle aree motorie e pre-motorie del cervello, hanno un ruolo decisivo sia nell’apprendimento per imitazione, sia nel fenomeno dell’empatia. Il dipartimento di Neuroscienze, dell’Università di Parma l’Unità operativa complessa di Chirurgia maxillofacciale e l’ambulatorio di Logopedia dell’ospedale stanno portando avanti due studi per cercare di capire quale sia la capacità di riconoscere le emozioni altrui in chi è affetto da sindrome del sorriso.
Sì perché la caratteristica principale della sindrome è la paralisi facciale, a causa della ridotta o mancata formazione dei nervi cranici 6 e 7, che impedisce appunto di sorridere. Invece di far operare la figlia in Canadi Moebius e se sia possibile elaborare un protocollo di riabilitazione post-chirurgica utilizzando il sistema dei neuroni specchio come tipo di terapia. L’idea è di aiutare la riattivazione della muscolatura trapiantata sfruttando appunto la capacità dei neuroni di “trasformare” in azione gli stimoli visivi: si mostra su un monitor come sorridere. O si chiede di stringere anche la mano, perché nel cervello l’area di rappresentazione della mano è vicina a quella della bocca e questo rafforza il movimento. «Ma siamo solo all’inizio», dice Pier Francesco Ferrari, del dipartimento di Neuroscienze. da, però,Renzo De Grandi ha invitato il professor Zuker a venire in Italia, a Parma, ad eseguire l’intervento. «Così si è formato a Parma un gruppo di chirurghi maxillo-facciali che in breve tempo sono diventati esperti nella “chirurgia del sorriso” e della Sindrome di Moebius — racconta il professor Giuseppe Masera, presidente del Comitato scientifico di Aismo —. Su questa competenza, unica in Italia e fra le poche in Europa, si è organizzato un gruppo di esperti che ha creato un modello di collaborazione virtuosa tra il nucleo centrale di Parma ed esperti degli altri due centri di Milano, all’ospedale Niguarda e al Policlinico».
Dal 2003 a oggi sono stati visitati e seguiti circa 190 pazienti affetti da Sindrome di Moebius, 53 dei quali sono stati sottoposti a smile-surgery. «Per la logopedia — aggiunge Anna Barbot, logopedista dell’Aou di Parma — i pazienti più lontani possono usufruire di supporti informatici quali le video-conferenze».
Nell’ultimo convegno nazionale di Aismo è stato lanciata una richiesta ufficiale all’Istituto Superiore di Sanità e si sta raccogliendo un dossier da inviare a Roma. «Sarebbe auspicabile anche per la sindrome di Moebius la realizzazione di una rete hub and spoke (mozzo e raggio, ndr) — dice il professor Mauro Gandolfini, associato di Ortognatodonzia dell’Università di Parma —, al fine di individuare il corretto percorso assistenziale e di creare protocolli diagnostico terapeutici comuni a tutto il territorio regionale e nazionale. L’obiettivo è di raggiungere un’uniformità nella presa in carico dei pazienti, evitando disomogeneità di trattamento nei diversi centri, e soprattutto possibilità di presa in carico per i pazienti di altre regioni».