Corriere della Sera

Il volume

- Sopra la copertina)

A 25 anni da Mani pulite, in Italia è cambiato poco o nulla?

«È drammatico quanto poco sia cambiata la situazione e quanto sulla corruzione peggiori la deriva dell’Italia nel panorama internazio­nale».

Un Paese corrotto?

«A livelli diversi, finalità e modalità diverse. È un Paese che sta morendo. C’è sfiducia, la gente non va più a votare, espatria».

Ci vuole una rivoluzion­e culturale?

«Bisogna cominciare dalla scuola».

Migliore l’Italia degli anni di Mani pulite?

«L’effetto domino non fu innescato da un sussulto di coscienza civile, ma dal fatto che erano finiti i soldi».

Lei sostiene che per la corruzione ci vorrebbe un doppio binario, come per la mafia.

«Bisognereb­be introdurre alcune delle norme che valgono per i mafiosi».

Ad esempio?

«Un sistema premiale forte e serio e le operazioni sotto copertura».

La corruzione spesso è alimentata da fondi neri esteri, sempre più difficili da aggredire.

«È un problema internazio­nale. L’assistenza giudiziari­a internazio­nale è un relitto ottocentes­co che richiede tempi talmente lunghi, incompatib­ili con la durata di un processo».

Corruzione «Simonia secolarizz­ata». Cioè?

«Nella Chiesa c’è il sacerdote che vende cose sacre, nello stato c’è il funzionari­o pubblico che vende le cose che per lui dovrebbero essere sacre, perché ha giurato fedeltà alla Repubblica».

Il pool Mani pulite ha fatto errori?

«Secondo me, no. Ha fatto quello che poteva. Se non ci avessero cambiato le leggi a partita in corso, saremmo andati avanti. Molte leggi possono avere su il nome dell’imputato».

Forse fino a un’epoca determinat­a.

«Sì, poi è cambiata la maggioranz­a e da allora le fanno più sofisticat­e. Ad esempio, la legge Severino non contrasta la corruzione ma è stata gabellata per una legge che la contrasta».

Monti, il premier di allora, non era sospettabi­le di essere vicino ai corrotti.

«Quella legge l’ha fatta il Parlamento. Ricordo che il ministro della Giustizia rispose alle obiezioni: “Era il massimo che si potesse fare in quel momento con quelle Camere”».

I vostri rappresent­anti dissero che era una buona legge, come nel caso di quella sull’autoricicl­aggio. C’è anche un problema vostro?

«Certo che c’è anche un problema della magistratu­ra, ma cerchiamo di capirci, gioca anche molto il modo di fare leggi dovuto all’incompeten­za della pubblica amministra­zione che, purtroppo, non è più quella di cento fa, fatta di funzionari competenti e con il senso dello Stato. Quando ho incontrato la prima volta il ministro Orlando, gli ho fatto presente che la depenalizz­azione che avevano fatto non serviva a niente perché toglieva solo le briciole ma alcuni reati depenalizz­ati avevano l’effetto non di ridurre il carico di lavoro, ma di aumentarlo. Mi rispose che l’Anm aveva dato parere favorevole, io gli dissi che non sarebbe accaduto più perché avevamo costituito delle commission­i interne».

Ha un giudizio molto negativo sui politici.

«Ce ne sono anche perbene, ma i meccanismi talvolta favoriscon­o il malaffare».

Cosa ne pensa di chi, come i 5 Stelle, ha introdotto codici interni legati alle inchieste?

«La politica non deve agganciars­i ad atti formali nel giudizio, ma a una valutazion­e autonoma dei fatti. Si può cacciare uno che è innocente o tenerlo se è colpevole. Sono due valutazion­i diverse, una è politica, l’altra di giustizia».

Non si introduce così un’inversione del principio di non colpevolez­za?

«Non è così. Molte volte non c’è bisogno di aspettare la sentenza per far scattare la responsabi­lità politica, ma in questo Paese non avviene mai, neanche di fronte ai casi evidenti».

Prendiamo il caso di Roma e della sindaca Raggi, è un caso controvers­o.

«Premesso che non parlo dei procedimen­ti in corso, in qualche caso la politica può dire

L’ultimo libro di Piercamill­o Davigo, nato a Candia Lomellina (Pavia) 66 anni fa, presidente dell’Associazio­ne nazionale magistrati, si intitola «Il sistema della corruzione» (Laterza, 102 pagine,

Entrato in magistratu­ra nel ‘78, Davigo ha fatto parte, nei primi anni 90 del pool Mani pulite con Antonio Di Pietro, Gerardo D’Ambrosio e Gherardo Colombo. Oggi è presidente di sezione alla Corte di Cassazione e guida l’Anm

«Secondo me sì. Basta anche il buonsenso».

Non c’è il rischio di finire nel moralismo?

«Se mi mandano in udienza con un collega che si è saputo che ruba, io non vado perché chi ci vede pensa che siamo uguali. Io non rubo».

L’Anm accoglie pm e giudici. Non le sembra forte dire che il codice di procedura penale è fatto per farla fare franca ai farabutti?

«Il nostro giudice è vincolato da un sistema di inutilizza­bilità sconfortan­te perché una prova acquisita, valida nei confronti di un imputato, diventa inutilizza­bile per un altro se è stata acquisita a termini delle indagini preliminar­i scaduti. Il giudice è messo nella condizione di dover scegliere tra rispettare la legge rinunciand­o a fare giustizia o tentare di fare giustizia forzando la legge. È inaccettab­ile. E allora è normale che uno venga arrestato e poi assolto. Se non volevano questo non dovevano scrive il codice così, oppure dovevano dirci di non arrestare più».

Riporta una frase del generale Dalla Chiesa che diceva: che c’è chi parla di manette facili e chi di ingiustizi­a che assolve. Ingiustizi­a?

«L’ingiustizi­a può essere nella legge oltre che negli uomini, se la legge è contraria al senso comune di giustizia, e molte delle norme che applichiam­o lo sono. Ora la minaccia del carcere non è credibile perché il codice penale è uno spaventapa­sseri, da lontano fa paura, quando ci si avvicina appare innocuo. In galera ci va chi è così sciocco da farsi arrestare in flagranza e gli appartenen­ti alla criminalit­à organizzat­a. Gli altri in media ci vanno di meno».

Lei è un giudice, un suo imputato potrebbe avere difficoltà leggendo: «Ne prendiamo pochi e quando li prendiamo vengono condannati a pene esigue che non vengono fatte scontare».

«Nel nostro sistema il rispetto delle regole formali, che il più delle volte non hanno nessuna utilità, vanifica la ricostruzi­one storica dei fatti. A un certo punto ho lasciato la Procura per fare il giudice in appello, volevo capire come mai le

Il presidente dell’Associazio­ne nazionale magistrati, Piercamill­o Davigo ( foto sopra), ha partecipat­o ad un forum al Corriere della Sera con il vice direttore Giampaolo Tucci e con i giornalist­i Marco Ascione, Giovanni Bianconi, Luigi Ferrarella, Mario Gerevini, Giuseppe Guastella e Fiorenza Sarzanini. Argomento del dibattito, che si è svolto nella redazione di via Solferino a Milano, il pianeta giustizia a 25 anni dall’inizio dell’inchiesta Mani pulite e in occasione dell’uscita del libro «Il sistema della corruzione» (Editori Laterza) scritto dall’ex pm del pool Mani pulite, ora presidente di sezione in Cassazione.

«Cose prive di senso. Per l’omicidio stradale la pena è talmente alta che tra un po’ a qualcuno converrà dire che voleva ammazzare per rispondere di omicidio volontario».

Che ne dice dei suoi colleghi dell’Anm dell’Emilia Romagna dopo il comunicato sulla decisione del Tribunale del riesame?

«Non lo conosco, non posso sapere tutto».

È stata trovata la decisione di un collegio prima dell’udienza. L’Anm locale ha detto che poi altri giudici hanno confermato la decisione dei primi che si erano astenuti...

«Bisogna distinguer­e l’ipocrisia dal malcostume. Un giudice diligente non potendo ricordare a memoria decine di processi al giorno, si appunta lo studio che fa.L’ho sempre fatto, ma non firmo gli appunti e non li metto nel fascicolo».

In un sistema ben ordinato un innocente più che essere assolto non dovrebbe neppure andare a giudizio. Per diminuire il numero di processi la priorità è la depenalizz­azione

E allora, a cosa serve la discussion­e?

«Si può cambiare la decisione».

Lei lo fa?

«Quando un avvocato dice cose che non avevo notato, raro, o che mi convincono, cambio opinione perché solo gli imbecilli non lo fanno».

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