Tre segnali (inaspettati): e se Donald fosse un «realista»?
Ese Donald Trump in politica estera non fosse così iconoclasta come le minacciose promesse della campagna e le sue salve d’esordio dalla Casa Bianca fanno temere? Se man mano che la sua Amministrazione si struttura, l’incendiario in capo stesse in parte frenando la deriva che sembrava mettere in discussione i pilastri tradizionali della foreign policy americana? Molto più che in politica interna, dove l’impronta nativista e xenofoba di Steve Bannon, il super-consigliere che civetta col soprannome di Darth Vader, è presente dappertutto, una traccia più tradizionale e centrista comincia a intravedersi sui rapporti internazionali.
Tre episodi della settimana scorsa rappresentano altrettanti indizi a sostegno di questa impressione. Quello più significativo è stata la telefonata di Trump al presidente cinese, Xi Jinping, in cui il capo della Casa Bianca ha espresso l’intenzione di restare fedele alla «one China policy», quella che da più di 40 anni vede gli Stati Uniti riconoscere solo il governo di Pechino. Non era scontato, dopo che in dicembre Trump in un’altra telefonata aveva fatto intravedere al premier di Taiwan la possibilità di un riconoscimento diplomatico, che avrebbe significato il rovesciamento della politica ufficiale.
Certo, questo non cambia la posizione di Trump, il quale vede nella Cina la principale minaccia strategica per l’America. Lo dimostra l’affossamento del Trattato per il libero commercio nel Pacifico. E lo dimostra l’accoglienza calorosa riservata da Trump al premier giapponese Shinzo Abe. Ma il chiarimento con Xi Jinping, suggerito dal nuovo segretario di Stato Rex Tillerson, era essenziale per riaprire una finestra di dialogo.
Il secondo aggiustamento è stato su Israele. Mai nessun presidente americano ha espresso un sostegno così incondizionato e acritico al governo di Tel Aviv, come quello assicurato da Trump a Benjamin Netanyahu, in particolare sul tema controverso degli insediamenti nei territori occupati. Ma venerdì scorso, in una intervista a un giornale israeliano, il capo della Casa Bianca ha detto che «gli insediamenti non aiutano il processo di pace». Una posizione non lontana da quelle di George W. Bush e dello stesso Obama.
Infine, forse in modo meno appariscente, un accento diverso si registra sull’Iran. Sul fondo non cambia nulla, anzi. L’Amministrazione ha infatti appena approvato nuove sanzioni contro il regime di Teheran, dopo gli ultimi test missilistici. Ma se dobbiamo credere a Federica Mogherini, l’Alto Rappresentante della Ue per la politica estera, che nei giorni scorsi ha incontrato a Washington Tillerson e altri esponenti del governo, gli uomini dell’Amministrazione hanno fornito ampie rassicurazioni che l’accordo sul nucleare iraniano verrà onorato dagli Stati Uniti.
È presto e forse anche sbagliato dire che tutto stia per rientrare nell’alveo di una politica estera americana tradizionale, sia pure nella versione realista e muscolare dei repubblicani. Sono ancora tutti da verificare l’impegno verso la Nato o l’evoluzione dei rapporti verso Mosca dove comincia a trasparire qualche cautela. Ma soprattutto occorrerà sempre tener presente il fattore T, l’imprevedibilità umorale e narcisista che è la cifra di The Donald. L’ultimo episodio in ordine di tempo la dice lunga. Trump si era convinto a nominare Elliott Abrams a vice di Tillerson al Dipartimento di Stato. Vecchio falco della Guerra Fredda, condannato per lo scandalo Iran-Contra, Abrams aveva servito con Reagan e George W. Bush, sposando sempre posizioni interventiste, un «duro» per antonomasia, coinvolto in diversi tentativi di golpe come quello in Venezuela nel 2002 contro Chávez. Poi, due giorni fa, Trump ha cambiato idea e ha respinto la nomina. Ma la ragione non ha nulla a che vedere con il controverso passato di Abrams. Più prosaicamente il presidente si è andato a leggere tutte le contumelie che l’ex diplomatico aveva scritto contro di lui durante la campagna elettorale, definendolo un cialtrone e un ignorante. A differenza di un politico tradizionale, Trump non dimentica.