Il prof che smaschera le fake news «Un motore di ricerca per bufale» Filippo Menczer insegna all’Università dell’Indiana. «Ora arriverà in Europa»
«Nessuno può rispondere con certezza a questa domanda. Motivo per cui è importante fare ricerca nel campo della disinformazione». Risponde così Filippo Menczer, docente di Informatica e Computer Science all’Università dell’Indiana, al quesito sulla possibile influenza delle notizie false circolate in Internet e, in particolare, sui social network sull’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti.
Menczer ormai è americano a tutti gli effetti, nonostante un accento romano ancora spiccato tradisca chiaramente le sue origini: si è trasferito a San Diego nel 1991, dopo essersi laureato in Fisica l’anno prima alla Sapienza. Oggi vive a Bloomington, cittadina universitaria dell’Indiana, con moglie e due figli.
Quando, lo scorso novembre, gli States sono stati travolti dall’inatteso — almeno mediaticamente — esito del voto presidenziale e dal dubbio che le assurdità rimbalzate su Facebook e Twitter avessero condizionato l’elettorato ai danni di Hillary Clinton (una delle tante ricerche pubblicate in quelle settimane confermò effettivamente la produzione automatica di contenuti pro Trump con un rapporto di 7-1 rispetto a quelli a favore della candidata democratica) Menczer e la sua squadra del Center for Complex Networks and Systems Research stavano lavorando da tempo sulle dinamiche di diffusione delle notizie in Rete. In aula Il professore di Informatica Filippo Menczer
«Studiando la propagazione di nomi, contenuti e hashtag su Twitter, ci siamo accorti già nel 2010 che alcune informazioni venivano diffuse per manipolare l’opinione pubblica. C’erano account falsi controllati da un unico software che indirizzavano a siti di fake news per screditare o sostenere politici. Io stesso ne avevo aperto uno per scopi di ricerca. Nel 2014 poi c’è stata l’esplosione, con portali sempre più sofisticati e in grado di fare anche molti soldi con la pubblicità», spiega il docente, che collabora con gli altri due italiani Alessandro Flammini e Giovanni Luca Ciampaglia.
Nei due anni successivi la mole di dati raccolta, sia dal microblog sia dai siti individuati da parti terze attive nel fact-checking come dispensatori di falsità, ha portato allo sviluppo di Hoaxy (hoaxy.iuni.iu.edu). Il nome gioca con la traduzione del termine inglese «bufala». Si tratta di un motore di ricerca con due obiettivi: la segnalazione di notizie false — per ora solo basata sui contenuti americani — per parole chiave, esattamente come si fa su Google quando ci si sta interrogando su un determinato argomento, e il confronto con gli articoli di chi si prodiga a smontarle. «Parte della nostra ricerca consiste nel comprendere perché le falsità sono più virali dei contenuti di fact-checking», spiega Menczer.
La funzione visualize di Hoaxy ne dà una chiara rappresentazione. Provate a cercare «Clinton health» e a selezionare i primi cinque articoli: i grafici confermeranno il netto e maggiore successo dei lavori delle fonti delle teorie cospirazioniste e un’altrettanto netta divisione fra chi le condivide e chi converge invece sulle smentite. Si chiama polarizzazione, ed è la stessa tendenza su cui si concentrano gli studi di un altro italiano, il coordinatore del CSSLab dell’Imt di Lucca Walter Quattrociocchi.
Il motore di ricerca di Menczer ha stimolato la curiosità di Francia, Germania e Italia. «Ci hanno contattato alcuni gruppi di fact-checker, noi non abbiamo abbastanza risorse per realizzare versioni in altre lingue: renderemo quindi il codice disponibile a chiunque, così da consentire lo sviluppo di Hoaxy anche in Europa», anticipa il docente. Nei primi due Paesi sopracitati, preoccupati per il dibattito sulle prossime elezioni in calendario, Facebook ha già predisposto sistema di verifica delle terze parti che dovrebbe aiutare a contrassegnare le falsità. Nei nostri confini è attivo l’appello BastaBufale per provare a sensibilizzare tutte le parti coinvolte sul tema.
@martinapennisi