«Crédit Agricole, i piani per l’Italia Una spinta al risparmio e alla crescita»
Maioli: il gruppo ha investito 14 miliardi. Le sofferenze? Sistema delle imprese fragile
Di questi tempi investire in Italia può apparire, per certi versi, un atto di coraggio. O di fiducia. Il Crédit Agricole, solo negli ultimi 10 anni, ha investito 14 miliardi. «Si tratta dell’investimento più ampio realizzato da un gruppo bancario internazionale», ricorda Giampiero Maioli, senior country officer di Crédit Agricole in Italia. Che vuol dire molte cose, da Cariparma a Friuladria, a Carispezia, ad Agos, Fca bank, Cacib, Indosuez, i servizi assicurativi e di asset servicing. Fino all’ultima arrivata, Pioneer: «L’investimento realizzato attraverso Amundi creerà il primo asset manager europeo e terzo in Italia. Assumeremo qui e sposteremo alcune delle attività a Milano».
Eppure il partito di chi non crede alle chance dell’Italia è sempre molto numeroso…
«Io sono più ottimista sulla capacità di ripresa del Paese. Sono perplesso, invece, sui giudizi e sugli outlook che sono spesso molto diversi dall’andamento dell’economia reale. Per quello che riguarda noi, nel 2016 tutte le società hanno realizzato trend positivi. E la crescita si conferma anche nella partenza del 2017. Forse dovrebbero essere preoccupati di più gli inglesi con il grande punto interrogativo della Brexit…».
Agricole è stato a lungo un socio stabile di Intesa…
«Fino al 2007. Quando siamo usciti, in pieno consenso, abbiamo ricostruito un progetto che ci ha portato fino a qui. Investendo e crescendo costantemente. L’Italia è l’unico mercato nel quale Agricole è presente con tutte le società, dal leasing al factoring, dal risparmio fino ai prodotti assicurativi e finanziari. Siamo il secondo mercato domestico dopo la Francia. Sviluppiamo 3,2 miliardi di ricavi. Senza contare Pioneer».
A proposito di Francia, un Paese pigliatutto in Italia…
«Detto così, non mi sembra un approccio corretto. Nel nostro piano 2017-2020 prevediamo di investire oltre 600 milioni con il progetto “Ambizione Italia”. Assumeremo più di 600 persone. Tutta la nostra storia dimostra che siamo un investitore di lungo termine».
Eppure fare banca è sempre più complicato.
«L’industria bancaria sta vivendo una trasformazione paragonabile a quella dell’editoria. L’avvento del digitale e del consumo online rende necessario combinare i clienti tradizionali e il new style. Il cliente sceglie, decide, valuta. Per noi, presenti in più di 50 Paesi, il cuore è la soddisfazione del cliente…».
Mi perdoni, questo lo dicono tutti…
«Dirlo è facile. Noi, avendo origini mutualistiche, dobbiamo combinare capitale economico e valoriale. La trasparenza è centrale. Il tema chiave oggi nella nostra industria è la reputazione. Se vediamo quello che è accaduto in questi ultimi anni la vera sfida del fare banca è tutta qui. E il cliente è la figura intorno alla quale deve ruotare tutto. Abbiamo un modello misto che chiamiamo la “banca universale di prossimità”. Il punto intorno a cui ruota tutto è la banca commerciale».
E come si misura il risultato?
«In media i clienti comprano 6 prodotti, noi siamo su dati più elevati».
Non siete entrati in Atlante…
«Abbiamo fatto la nostra parte con altri strumenti. Il problema delle sofferenze viene da molto lontano. Per troppo tempo si è vissuti nell’equivoco che la piccola dimensione delle aziende fosse compensata dalla maggiore reattività. Un errore. Una sottovalutazione di cui sono responsabili industria e banche. La violenza della crisi ha messo a nudo tutti gli errori. Sono cadute le imprese più fragili e gli istituti di credito sono stati caricati di un peso fuori scala. Comunque spesso si sottovaluta una regola chiave: le banche muoiono per mancanza di liquidità, non di patrimonio. Da
questo punto di vista in Italia la liquidità, grazie al risparmio, c’è stata sempre…».
Duecentonovanta miliardi di sofferenze. Una montagna insormontabile.
«Negli ultimi 50 anni nel resto del mondo queste situazioni sono sempre state gestite con l’intervento dello Stato. Da noi no. Il peso è stato scaricato tutto sulle banche e sui risparmiatori. Qualcosa sta cambiando: migliori regole di governance, strumenti per accorciare i tempi di recupero, i 20 miliardi del salva risparmio. Ma ci vorrà tempo. Vorrei dire un’altra cosa: questa situazione di crisi ha fatto anche emergere le forze migliori. E il Paese ne ha tante se si valuta la capacità di resistenza, sopportazione e reazione».
Ma nessuno lo dice…
«Appunto. Gli italiani amano criticarsi da soli. Un po’ autolesionisti. Sa cosa dicono a Parigi? Gli italiani sono francesi che sorridono. Non c’è Paese al mondo ad aver sopportato tutte queste perdite e che continua a risparmiare».
Più o meno 3mila miliardi.
«Siamo secondi al mondo dopo il Giappone. Come gruppo in Italia, ad esempio, abbiamo una raccolta pari a 132 miliardi. Con Amundi e Pioneer, supereremo i 230 miliardi. Posso assicurare che il risparmio resterà italiano, anzi faremo rientrare alcune attività cross border».
Come dire: francesi d’Italia…
«L’Italia è il Paese dove assumiamo, eroghiamo il credito e paghiamo le tasse. Forse siamo più italiani di altri gruppi che hanno passaporto italiano».
E i prestiti alle imprese e alle famiglie?
«Eroghiamo 65 miliardi, gli impieghi sono cresciuti del 5%. Sui mutui casa la nostra quota di mercato è 2,5 volte superiore alla quota sportelli. Ma la cosa a cui teniamo molto è la trasparenza: abbiamo vinto l’Oscar di Bilancio. E teniamo molto anche alla Corporate Social Responsability».
Agricole nasce come una rete delle banche fortemente radicate sul territorio francese. La Banca Verde. La Borsa è arrivata molto dopo…
«Esatto. Si può fare bene banca, in Italia e ovunque, se hai rispetto dei clienti, dei dipendenti e degli azionisti».
Non le sembra di essere retorico…
«No. Non si possono avere performance durevoli nel tempo se non sei rigoroso. Avendo noi origini mutualistiche, la parte valoriale per noi è molto importante. Siamo un incrocio tra capitale economico e capitale valoriale. Dal ceo del gruppo a tutti i dirigenti, una parte dei bonus è legata alla Social Responsability. Dall’ambiente alle attività sul territorio. Non è un corollario, fa parte integrante del nostro mestiere di banchiere».
Come fa a gestire una banca con tanti azionisti: Agricole, Fondazione Cariparma, Fondazione Carispezia, 12 mila soci in Friuladria, Fca, Banco Bpm…
«Rispetto reciproco. Abbiamo la fortuna di avere un grande azionista, che ha sempre creduto nei nostri progetti. Solo nel 2016 le entità italiane hanno assicurato ai soci utili aggregati per 800 milioni, con un contributo all’utile del gruppo di 482 milioni. Non voglio apparire presuntuoso, ma nel periodo 2011-2016 siamo il gruppo bancario che ha generato più utili in Italia, 1,1 miliardi. Ci sono vecchi concetti contabili che lasciano poco spazio alle star. Numeri. Se devo dire, mi piacciono più i cuochi che gli chef».
A Parma, poi…
«Dopo l’esperienza di Expo vogliamo far diventare Cibus la piattaforma del made in Italy. Ci crediamo molto. Vogliamo che diventi la fiera del cibo italiano nel mondo. Siamo italiani o francesi quando facciamo questo? Abbiamo investito 400 milioni nelle infrastrutture aeroportuali. Siamo primary dealer sul debito italiano e siamo fortemente radicati in Italia».
Avete anche molti investimenti sociali.
«Fa parte del core business della banca. Dall’aiuto per il terremoto, per cui abbiamo un progetto a Rieti, alle mostre internazionali, come quella di Manet proprio a Milano. Un’attenzione al territorio e una modalità di crescita basata sul consenso. La strategia corretta credo sia sempre quella dei passi condivisi. Lo abbiamo fatto in questi anni con i nostri azionisti di minoranza».
E la campagna acquisti? Avete qualche obiettivo?
«Le fusioni fredde non ci piacciono. Valutiamo anche opzioni di crescita che rientrino nelle nostre linee strategiche e compatibili con il nostro modello. Abbiamo dimostrato successo con l’integrazione di realtà regionali con il loro pieno consenso, altrimenti meglio crescere per conto nostro».