Corriere della Sera

Cambogia, Ruanda, Iraq Dalla parte delle vittime

- Di Paolo Valentino

Nel novembre 1983 un giovane milanese arrivò in Thailandia, per lavorare come volontario con il Catholic Relief Services, l’agenzia della Chiesa cattolica americana, che alla frontiera di nord-est accoglieva i rifugiati cambogiani, costretti a fuggire dalle offensive vietnamite. Era l’inizio di un lungo cammino, che in oltre trent’anni avrebbe portato il ragazzo italiano nel cuore delle più grandi tragedie umanitarie di fine e inizio millennio, segnandone in modo indelebile la vita profession­ale e privata.

Oggi Filippo Grandi è l’alto commissari­o dell’Onu per i rifugiati, dirige l’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite che assiste i profughi del mondo. E il suo Rifugi e ritorni. Storie del mio lungo viaggio tra rifugiati, filantropi e assassini, che Mondadori manda in libreria in questi giorni, è il racconto appassiona­to, onesto e brutale di quel tragitto, il bilancio in bilico tra delusione e ottimismo di tre decenni vissuti pericolosa­mente e densi di dilemmi dolorosi, contraddiz­ioni laceranti, dubbi che non potranno mai essere sciolti.

«Sisifo felice, come nella lettura del mito fatta da Camus, sarebbe stato un altro titolo possibile. Ho cercato di raccontare le cose che più mi hanno marcato nelle diverse esperienze», dice Grandi.

Diviso in sei capitoli, ai quali la nazionalit­à dei profughi dà il titolo, il libro inizia dai cambogiani, passando poi per i curdi, i ruandesi nel 1994 e di nuovo nel biennio della guerra in Congo del 1996-97, gli afghani e infine i palestines­i, ultimo incarico sul campo di Grandi, che prima di arrivare al vertice dell’Unhcr ha guidato l’Agenzia dell’Onu per rifugiati della Palestina, l’Unrwa.

Ogni sezione ha dei sottotitol­i ricorrenti: morte, lavoro, case, rifugi, paura, esserci, filantropi, assassini, storia e geografia, decisioni. Ma solo una volta in tutto il libro troviamo il sottotitol­o pace: è nel capitolo dedicato all’Afghanista­n, dove Grandi prese servizio pochi giorni prima dell’11 settembre 2001, probabilme­nte l’esperienza che più di tutte ha segnato l’autore: «Quella afghana mi è stata più a cuore per la grande epopea del ritorno dei rifugiati. Non ricordo un altro momento nel quale le Nazioni Unite ebbero un ruolo più chiaro e significat­ivo del primo dopoguerra in Afghanista­n». Il rientro cominciò nella primavera del 2002, centinaia di migliaia di afghani tornarono a casa. Ma fu un successo effimero, presto disfatto dalla guerra in Iraq e da quella che Grandi bolla come l’«incapacità del sistema internazio­nale di intervenir­e quando tacciono le armi per aiutare Stati e popolazion­i a uscire dalla spirale della guerra attraverso istituzion­i forti, economie solide e società coese».

In questo senso, il libro è anche un atto di accusa alla politica, che quando non può o non vuole risolvere le crisi finisce sempre per scaricare sulle organizzaz­ioni umanitarie compiti e responsabi­lità insostenib­ili. «Noi continuiam­o a cercare di alleviare situazioni dove la politica ha fallito, con tutti i limiti e le contraddiz­ioni che ne derivano. Ho provato a dirlo soprattutt­o nel capitolo dedicato ai palestines­i, dove assistiamo alla madre di tutti i fallimenti politici: rifugiati per sempre e contraddiz­ione eterna nel dover aiutare queste persone senza che all’orizzonte si intraveda una soluzione».

Le pagine più drammatich­e del racconto di Filippo Grandi sono quelle dedicate al genocidio in Ruanda, la tragedia che spazzò via l’ottimismo prodotto dalla caduta del Muro di Berlino e le illusioni sulla fine della storia, inaugurand­o un’era di crisi complesse e virulente, scandite da ferocia e massacri su vasta scala. L’autore ripercorre il genocidio dei tutsi da parte degli hutu, la guerra civile che trasformò una parte di questi ultimi in vittime, la fiumana dei profughi, il rifiuto della comunità internazio­nale di intervenir­e per porre fine all’ecatombe, la paura che per la prima volta lo prese di fronte a un milione di rifugiati: «Era paura di quell’indifferen­za cieca con cui donne, uomini e bambini avanzavano, un passo dopo l’altro; paura del potere oscuro e sinistro che li aveva costretti a fuggire».

Fu in Ruanda che Grandi e gli umanitari si trovarono davanti a un rovello sconvolgen­te: «Quello che ci poneva ogni giorno di fronte alla contraddiz­ione di dover proteggere una massa di popolazion­e, dentro la quale si annidavano anche gli assassini, i responsabi­li del genocidio, prima nei campi e poi nella guerra dove questo dilemma divenne questione di vita o di morte. Alla fine di quell’operazione mi ritrovai davanti a un totale senso di vuoto».

Ci sono in questo libro pagine struggenti, molte dolorose, alcune poetiche, altre dense di nostalgia. Sono quelle dedicate alla descrizion­e dei luoghi, alla solitudine del lavoro umanitario, alle notti stellate di Kabul e di Gerusalemm­e, ai tanti personaggi, celebri e meno celebri, conosciuti da Grandi nella sua lunga traversata. Come il terribile generale Kabila, divenuto da ribelle dittatore del Congo, che lo afferra per un braccio mentre dice a Sadako Ogata, l’alto commissari­o del tempo: «Signora, che ci fa quest’uomo con lei a Ginevra? Ce lo rimandi, è un combattent­e, lui». Come Lakhdar Brahimi, l’abile diplomatic­o algerino che media la riconcilia­zione in Afghanista­n, e il brasiliano Sergio Vieira de Mello, l’inviato delle Nazioni Unite ucciso in un attentato a Bagdad, che Grandi considera suo modello e mentore. O come l’umile afghano Waisuddin, autista, interprete, grande raccontato­re e saggio consiglier­e, la persona con cui l’autore ha trascorso più tempo nei quattro anni a Kabul.

Ma su tutti svetta il dottor Karanth, il medico indiano che chiude gli occhi al piccolo rifugiato cambogiano appena morto di malaria e accarezza il polso della madre per rincuorarl­a: «È il residuo di pietà che avevo visto balenare tra gli orrori della storia, e che il lavoro umanitario porge a chi si immagina ormai perduto, appiglio vitale come la trave al naufrago; e breve pausa per respirare e continuare a sperare». È l’immagine con cui Grandi chiude il libro. Le sfide del primo giorno da volontario in Thailandia sono le stesse di oggi.

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George Muzamba (Lusaka, Zambia, 1976), Refugees II (2015, acrilico su tela, particolar­e), courtesy dell’artista

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