Corriere della Sera

Rugby, la missione è impedire all’Inghilterr­a il tiro all’azzurro

Confronto spietato per l’Italia a Twickenham: «Evitiamo di prenderne altri 50»

- Domenico Calcagno

DAL NOSTRO INVIATO

Vuota e silenziosa la Cattedrale fa ancora più impression­e. Non ci sono tifosi, solo gli azzurri e i loro allenatori, che si spostano in gruppo sul prato che sta al rugby come San Pietro al cattolices­imo. È l’ultimo ripasso: quando siamo qui, nell’angolo dei nostri 22 metri, cosa dobbiamo fare? E quando siamo nella loro metà campo? Conor O’Shea non è un c.t. che fa le cose a spanne, ma sa benissimo, e lo sanno i suoi, che oggi a Twickenham contro l’Inghilterr­a che vince da 16 partite non sarà dura, sarà peggio. Dopo le botte prese dall’Irlanda, il tiro all’azzurro è stato lo sport più praticato a Londra e dintorni. Ha iniziato il Times: se l’Inghilterr­a sarà seria dovrà segnare almeno 68 punti all’Italia. E ogni giorno una nuova proposta, la più gettonata: via l’Italia, dentro la Georgia, che non ha mai vinto una partita contro una squadra di Tier 1 (la prima fascia). John Feehan, il direttore esecutivo del Sei Nazioni, ha detto e ripetuto che «il Torneo va benissimo così, lo giocano le migliori sei squadre d’Europa e al momento non c’è mezza possibilit­à che cambi qualcosa (almeno fino al 2024, ndr)». Ma tant’è.

Roberto Rizzo, che fa il pilone a Leicester e ha tutti i giorni Leader Sergio Parisse, 122 presenze nella Nazionale azzurra (Ap)

a che fare con gli inglesi, scuote la testa e spiega: «Nessuno tra i giocatori dice che l’Italia non deve stare nel Sei Nazioni, certo se ci fanno 50 punti ci sfottono... Pressione per la Georgia? L’unica pressione è evitare

di prenderne altri 50».

«Il format del Sei Nazioni è una faccenda che non mi riguarda — racconta O’Shea, che è irlandese e il nome se lo è fatto con gli Harlequins, che giocano allo Stoop, a meno di un miglio da Twickenham —. La gente parla in tv, scrive sui giornali. Fa parte del gioco. Io devo fare bene il mio lavoro e dimostrare che il rugby italiano può cambiare». Accorcia i tempi il c.t. («I progressi li voglio adesso») e si dà anche una scadenza: «Ho chiesto a Parisse di dirmi tra 18 mesi se non sono la persona adatta per fare quello che ho promesso. Ma se sono venuto in Italia è perché sono convinto che si possa fare quello che dico».

Magari non oggi pomeriggio contro la squadra di Eddie Jones, che giovedì ha ricevuto la visita a Pennyhill, il suo quartier generale, di Antonio Conte e che ha promesso di voler «dare all’Italia una bella ripulita». «Alla fine del Torneo — riprende O’Shea —, parlerò con la Federazion­e. Dobbiamo cominciare a lavorare da profession­isti, cambiare testa. Se ogni giorno ti dicono che sei scarso finisci per crederci, ma vi assicuro che in Italia i giocatori ci sono. Dobbiamo solo farli lavorare nella maniera migliore, togliergli ogni possibile alibi».

Prima bisogna però resistere in qualche modo a Twickenham dove, giusto per chiarire, in fondo al tunnel che porta al campo c’è scritto: «Qui nessuno è benvenuto».

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