La terapia dell’epatite non più solo per chi è grave
I costosi trattamenti finora sono stati riservati ai malati in stato più avanzato. Ora cominceranno a essere utilizzati anche per gli altri pazienti
i volta pagina nella cura dell’epatite C in Italia. Ormai i casi più gravi sono stati quasi tutti curati e adesso si devono affrontare due nuovi problemi: il trattamento di chi non ha risposto alle cure (circa il cinque per cento dei pazienti) e l’estensione della terapia ai malati meno gravi (quanti? le stime sono molto variabili: da 150 mila pazienti, forse pochi, a un milione e mezzo, decisamente troppi!).
Con in cima ai pensieri di tutti l’aspetto economico che, per la prima volta nel nostro Paese, ha fatto venire meno l’articolo 32 della Costituzione, quello che prevede l’accesso alle cure per tutti. Perché, per l’epatite cronica C, si è scelto di curare in prima istanza soltanto i pazienti più gravi.
Al 13 febbraio 2107, secondo il Registro dell’Aifa, l’Agenzia italiana del farmaco, che monitora le cure, sono state avviate al trattamento, in due anni, 67.638 persone. Ora i centri di riferimento segnalano che il serbatoio di questi pazienti, più gravi e più anziani, si sta esaurendo. L’accesso alle cure (costose) per questi malati è stato garantito da un fondo iniziale di 500 milioni di euro stanziati dal Governo. La prima fase, dunque, si sta avviando alla conclusione e si entra ora nella seconda. Ma c’è subito un’eredità della prima da affrontare: il problema di coloro che non hanno avuto beneficio dai trattamenti oggi disponibili, efficaci in quasi il 95 per cento dei casi, ma non nel 100 per cento. Un tema emerso con forza in occasione della Croi, la Conferenza sui retrovirus e sulle infezioni opportuniste che si è appena conclusa a Seattle.
«I virus dell’epatite C sono almeno sei, molto diversi fra loro, e non tutti rispondono alle terapie attuali — spiega Giovanni Di Perri, professore di Malattie Infettive all’Università di Torino —. Al momento non c’è “la pillola per tutti” e il trattamento con i farmaci disponibili andrebbe scelto dopo un test virologico per stabilire il tipo di virus in questione».
Ma finora il test non si è fatto, così si sono somministrare terapie (secondo lo schema «one size -pill- fit all», una taglia -una pillolaper tutti) che non sempre hanno funzionato: non lo hanno fatto, appunto nel 5 per cento dei casi .
«Stiamo parlando di almeno 3 mila persone fra quelle già trattate — commenta Carlo Federico Perno, professore di Virologia all’Università di Roma Tor Vergata — Il motivo del fallimento? O i farmaci somministrati non erano efficaci nei confronti del genotipo del virus coinvolto, oppure i pazienti presentavano una condizione clinica particolare (come per esempio un’insufficienza renale, ndr) capace di interferire con l’efficacia della terapia».
Di fronte a un fallimento occorre innanzitutto verificare, con un test, il genotipo coinvolto e scegliere la terapia di seconda linea più adatta: i farmaci già ci sono, ma gli schemi terapeutici sono piuttosto complessi. Per esempio la combinazione 3D, che associa tre farmaci (ombitasvir, paritaprevir, dasabuvir, più un vecchio antivirale, il ritonavir), già disponibile in Italia, può essere utile nei pazienti con insufficienza renale di vario grado, in cui la prima terapia non ha avuto successo.
E per affrontare, più in generale, il problema fallimenti, si è in attesa della “next generation” di farmaci, combinazioni di molecole chiamate pangenotipiche perché attive su tutti e sei i tipi di virus dell’epatite. Una di queste, in sigla GP perché associa due farmaci, il glecaprevir e il pibrentasvir, ha appena ottenuto l’autorizzazione dell’Ema, l’Agenzia Europea del Farmaco per l’immissione in commercio.
Si tratta, dunque, di combinazioni (somministrabili per bocca una volta al giorno) che non solo possono essere usate dove una prima terapia ha fallito, ma anche in prima linea (cioè in pazienti che non hanno mai ricevuto un trattamento) dove possono raggiungere un’efficacia vicina al 100 per cento e con solo otto settimane i sono persone in Italia, almeno 160 mila secondo le stime, che non sanno di essere infette con il virus dell’epatite C, perché questo virus non dà sintomi, almeno all’inizio. Poi, però, provoca danni seri al fegato. Come scoprire se si è a rischio? Anche Facebook può venire in aiuto con la sua pagina “Una malattia con la C” dove è possibile eseguire un test, sviluppato da Massimo Andreoni, infettivologo dell’Università Tor Vergata di Roma: non è un test di trattamento (invece delle 24-12 adottate normalmente), riducendo quindi la percentuale di insuccessi. Poi c’è il secondo problema: che cosa succederà, da qui in avanti, ai malati meno gravi in attesa di trattamento? E quali sono le priorità?
«Oggi si è aperta una nuova partita tutta da discutere — commenta Giuliano Rizzardini, responsabile della Divisione di Malattie Infettive dell’Ospedale Sacco di Milano —. Intanto non sappiamo quanti sono i nuovi pazienti da trattare: e se non lo sappiamo, non possiamo stabilire un budget».
È una partita che si gioca fra numero di pazienti (incerto), risorse disponibili (altri 500 mila euro stanziati dal Governo), nuovi farmaci più efficaci in arrivo che possono ridurre i tempi di trattamento e, quindi, permettere di curare più pazienti a costi minori. «Un’idea — dice Rizzardini — potrebbe essere quella di curare tutti, lasciando ai medici la scelta delle priorità». Perché adesso succede che alcuni pazienti vadano in India a comperare il farmaco o lo acquistino su Internet.
La settimana scorsa è iniziata la trattativa fra aziende e Aifa per stabilire i nuovi prezzi dei farmaci: secondo un articolo pubblicato dal Persone infette con il virus dell’epatite C* Fonte: Agenzia italiana del farmaco; Associazione EpaC; Organizzazione mondiale della sanità; II Università di Napoli (*stima) Dovranno essere stabilite le priorità per l’assegnazione della cura diagnostico, ma uno strumento di informazione e prevenzione che può far scattare un campanello d’allarme. Già 5 mila persone lo hanno fatto. L’iniziativa è promossa da Abbvie, coinvolta nella ricerca e nella produzione di farmaci contro l’epatite C, che aveva già anche inaugurato un portale (unamalattiaconlac.it) dove si possono trovare indicazioni utili per conoscere e prevenire la patologia.
quotidiano La Stampa, l’Aifa non è disposta a pagare più di 4 mila euro un ciclo di trattamento (all’inizio, negli Usa, la terapia costava fra gli 80 e 100 mila dollari, negli ultimi tempi in Italia il prezzo, per il servizio sanitario nazionale, si è attestato sui 9 mila euro) altrimenti minaccia di far produrre il farmaco, in versione generica, dallo Stabilimento Farmaceutico militare di Firenze. La storia dell’epatite C continua.