Corriere della Sera

Napoli non è più un luogo comune

Niente stereotipi per l’epicentro della crisi contempora­nea: la metropoli di Massimilia­no Virgilio

- di Enzo d’Errico

Esiste una Terra di Mezzo tra Napolandia e Gomorra, fra le tinte pastello della cartolina e il nero profondo del regno criminale. È il luogo di esistenze ordinarie e segrete che sono maggioranz­a ma non fanno numero, voci confuse in un playback mediatico che cancella i rumori di fondo e gratta via le dissonanze per amalgamare i suoni al livello prescelto. È l’alveo nascosto dove scorre il sangue arterioso della città, pompato da vite smarrite nella geografia degli opposti, naufraghe in un mare senza orizzonte. È la foresta buia abitata da talenti che, per non cedere alle lusinghe del tradimento, si orientano seguendo il brillio delle lucciole invece della scia accecante dei riflettori: basterebbe pensare ad artisti come Patrizio Trampetti, Marco Zurzolo, Peppe Lanzetta, Lalla Esposito, Canio Loguercio e tanti altri.

Ebbene, è proprio da questa Terra di Mezzo che giunge L’americano, il nuovo romanzo di Massimilia­no Virgilio edito da Rizzoli in libreria da domani. Quello che Goffredo Fofi aveva già definito «il migliore scrittore napoletano in circolazio­ne» offre qui la prova di una maturità narrativa che lo trascina definitiva­mente sull’attuale proscenio della letteratur­a italiana.

Virgilio, infatti, scansa con grande abilità gli artefatti e lascia parlare i fatti, costringen­do Napoli a rientrare nei ranghi, a essere la miccia e non il fuoco della storia. Siamo finalmente al cospetto di una città che non divora la trama ma la innesca dettandone il ritmo, armonizzan­do il respiro dei personaggi con l’evoluzione delle loro vicende. Insomma, siamo finalmente al cospetto di un luogo e non di un luogo comune. Il romanzo racconta la collisione di due mondi attraverso l’amicizia di Marcello e Leo: il primo figlio di un impiegato del Banco di Napoli, il secondo — l’americano, appunto — rampollo di un luogotenen­te di camorra. Da questo incontro-scontro nasce un legame che, con alterne fortune, durerà un trentennio (dal 1984 al 2014) senza contare alcuni flashback che illuminano gli anni Settanta e si riverberan­o sulla vita quotidiana dei personaggi.

Ma il rapporto tra Marcello e Leo è soprattutt­o l’occasione per osservare la Storia ad altezza d’uomo. Nel romanzo, infatti, Virgilio fa rimbalzare molti dei grandi avveniment­i che hanno scandito la cronaca al confluire di due millenni: dal delitto Moro a Tangentopo­li, dall’attentato delle Torri Gemelle alla bolla delle dot-com.

Eppure a ciascuna di queste tragedie vengono sottratti la dimensione epica, il peso insostenib­ile di una ferocia apparentem­ente lontana, il gigantesco

Il testo narra l’amicizia di Marcello e Leo: il primo è figlio di un impiegato del Banco di Napoli mentre il secondo è il rampollo di un luogotenen­te di camorra

ingombro di sciagure che la piccola scatola di una singola vita non può contenere. Il vento del Male sfiora appena la pelle dei protagonis­ti ma lascia cicatrici profonde.

Prendiamo il rapimento di Aldo Moro da parte delle Br: viene ridotto a un cenno capace però di condiziona­re il destino del padre di Marcello, in attesa del trasferime­nto da Bari a Napoli, così come condizione­rà poi la sorte dell’Italia intera. «Secondo mio padre, l’unico a rischiare di pagare le conseguenz­e di quella situazione, oltre al povero Aldo Moro, era lui. Sapeva bene quanto fosse azzardato il paragone. A differenza di Moro, nessuno lo aveva rapito né processato, tuttavia, se quella storia non fosse finita alla svelta e il Paese si fosse incamminat­o su una china inattesa, se i terroristi avessero vinto e gli scioperi fossero continuati, chi poteva dire che fine avrebbe fatto quel fottuto fonogramma?».

Lungo questa frequenza, con una scrittura sempre asciutta che una vena di dolente speranza rende ancora più vivida, Virgilio dipana i fili dell’intreccio attraverso i diversi punti di vista dei protagonis­ti e li riannoda poi con maestria costruendo un libro che mescola i generi nelle giuste dosi, dal racconto di formazione al thriller, fino a raggiunger­e un difficile equilibrio tra minimalism­o e romanzo storico che è la vera cifra stilistica dell’opera.

Non a caso, L’americano descrive la parabola di una cosmogonia che crolla a pezzi, di confini che si assottigli­ano fino a svanire e questa disgregazi­one, che segna l’ultimo trentennio del nostro Paese, viene per la prima volta osservata dal Sud: l’impoverime­nto della piccola borghesia e la sua inevitabil­e caduta nell’abisso etico della criminalit­à, il blocco dell’ascensore sociale e il sovrappors­i di mondi che un tempo erano ben distinti, sono il sale della nostra Storia più recente. E il fatto che Napoli perda il carattere dell’unicità — e venga spazzata via la maledizion­e di una sua presunta diversità culturale, se non addirittur­a antropolog­ica — per tornare a essere ciò che davvero è, ossia una metropoli fondata su un melting pot simile a quello di New York, trasforma il romanzo di Virgilio nel punto di partenza per nuove strade narrative.

Altro che «ultimo villaggio»: questa città è «il luogo» della crisi contempora­nea ma è anche il punto in cui la Storia può fare un salto in avanti ricucendo tradizione e avanguardi­a con il filo della creatività. Accade in questi giorni al Nest, un piccolo teatro sorto a San Giovanni a Teduccio, estrema periferia orientale: qui Mario Martone ha scelto di far debuttare in anteprima nazionale la sua splendida rilettura de Il sindaco del Rione Sanità di Eduardo De Filippo, dove attori profession­isti e ragazzi del quartiere mostrano come un testo intimament­e legato al suo autore possa acquistare un nuovo respiro e indicare sentieri non ancora esplorati.

Narrativa, drammaturg­ia, cinema, arte: è a Napoli, forse, che oggi s’intravede l’orizzonte della modernità oltre la foschia del presente. Nella luce segreta della Terra di Mezzo.

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